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Anna Luise Strong: L’era di Stalin

L’era di Stalin è un libro utile per conoscere in “presa diretta” la realtà quotidiana, le contraddizioni, i problemi, le finalità di quella straordinaria avventura che è stata la costruzione del socialismo in Unione Sovietica ad opera del Partito Comunista bolscevico guidato da Stalin.

Questo libro è un vero e proprio antidoto, un'arma di "legittima difesa" per il lettore contro la propaganda anticomunista che intossica le menti e le coscienze. È un invito a riflettere, a impegnarsi in un lavoro di ricerca per riappropriarsi di una storia che ci appartiene, per ricostruire una memoria che ci è stata sottratta o che è stata deformata da un costante lavoro di falsificazione operato da "storici" ed "esperti" al servizio delle centrali del potere economico e dei governi che le rappresentano.

Poter conoscere le testimonianze dei protagonisti e dei testimoni diretti degli avvenimenti significa attingere alle fonti storiche di quello che è stato e rimane l’immenso patrimonio del movimento operaio comunista, significa imparare dalla sua esperienza ed anche dai suoi errori per metterci nelle condizioni di dare il nostro contributo alla costruzione di un “nuovo mondo” più giusto e più umano

L'autrice,
Anna Louise Strong, giornalista e scrittrice statunitense, che aspirava ad una società fondata sull'uguaglianza dei diritti sociali e civili e che, nel suo Paese, si era sempre battuta a favore dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei bambini svantaggiati, descrive con onestà intellettuale e viva partecipazione la realtà della costruzione del socialismo in Unione Sovietica, negli anni Trenta e Quaranta
http://www.resistenze.org/sito/se/li/seli4m19.htm   

  spazioamico vi offre la lettura di alcuni capitoli  
II  Il piano quinquennale       
III la rivoluzione nell'agricoltura 
La grande follia                    
VI La lotta per la pace è perduta
VII Il patto che fermò Hitler       
VIII La guerra di tutto il popolo
 IX La seconda ricostruzione       

 

L’era di Stalin di Anna Louise Strong  
                                          (n.d.r.l'enfatizzazione di parti del testo è mia G.F.)

 

II

     Il piano quinquennale  pagg.59-75  

 

    All’inizio, il mondo al di là dei confini dell’Unione Sovietica sentì parlare del piano quinquennale solo come di un progetto follemente stravagante di Mosca. Io, e molti altri, che percorremmo in quel periodo le regioni più distanti dell’U.R.S.S., lo vedemmo prender forma in villaggi e fabbriche, città e regioni; vedemmo crescere il piano quinquennale dal bisogno di lavoro e di pane del bracciante agricolo, dall’ardente desiderio di lavoro creativo della gioventù in cerca di occupazione, dalle risorse intatte e inesplorate della pianura e della montagna, divenute finalmente proprietà collettiva, e i cui padroni erano decisi a godere della loro ricchezza. Poi, vedemmo la passione di questi milioni di cittadini sovietici pungolati instancabilmente dal cervello delle organizzazioni comuniste locali e dall’ufficio statale della pianificazione, tradursi in un piano che doveva industrializzare il paese e renderlo autonomo da ogni potenza straniera.

     Non fu mero caso se del piano quinquennale udii parlare per la prima volta nel cuore dell’Asia sovietica. Il quotidiano di Tashkent uscì un giorno con un titolo su tutta la pagina: Tran cinque anni nessuno riconoscerà il volto dell’Asia centrale. Sotto il titolo, metà del foglio era occupato da una carta della regione, costellata da nuovi grandi cantieri, ferrovie, fabbriche; accanto ad ognuno dei simboli che rappresentavano, la data d'inizio e il termine dei lavori previsti dal piano. Si trattava del progetto elaborato congiuntamente dagli organismi politici dell'Asia centrale, e che doveva ancora essere inserito nel quadro del piano centrale dell’Unione, elaborato a Mosca.

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   L’anno successivo, tornata nell’Asia centrale, ebbi occasione di compiere a dorso di mulo un’ascensione del Pamir, l’ampio acrocoro selvaggio ai confini tra U.R.S.S., India e Cina, che si usa chiamare il “tetto del mondo”. La ferrovia era ormai distante parecchi giorni di marcia, quando, fermatami a parlare con uno stradino usbeco incontrato lungo la pista, lo sentii pronunciare le uniche tre parole di russo che sapesse: <<strada››, «auto››, <<piatiletka››. Con queste tre parole, e aiutandosi soprattutto con una mimica espressiva da cui traspariva l’orgoglio, mi spiegò che la carovaniera sarebbe diventata una strada carrozzabile fino alla frontiera, per raggiungere la quale occorrevano allora dieci giorni di viaggio a cavallo. L’avrebbe fatto il piano quinquennale.

    Un altro anno passò, e fui inviata dal rinnovato Moscow News all’inaugurazione del nuovo tronco ferroviario tra il Turchestan e la Siberia, che doveva aver luogo il 1 maggio 1930. «Il primo dei giganti del piano quinquennale è pronto». Con queste parole la stampa e i manifesti portavano nel paese la voce della Turk-Sib. Quasi 2.000 chilometri di binari erano stati gettati a valicare, dal nord al sud, deserti e pianure disabitate. Un mio vecchio amico, Bill Shatoff, veterano per la lotta per la libertà di parola in America, reduce dalla guerra civile che per anni aveva insanguinato la Russia, era stato chiamato a dirigere l’impresa. La costruzione era stata portata a termine in un tempo record, con un anticipo di ben 18 mesi rispetto alle previsioni del piano, ma la conseguenza era stata una crisi finanziaria: a lavori conclusi, gli operai dovevano essere pagati, e la concessione dei fondi necessari era invece in bilancio, stando al piano, solo per l’anno successivo. Shatoff aveva messo a soqquadro Mosca e, a furia di urlare che lui non poteva piantare nelle grane migliaia di vittoriosi operai, solo per aspettare le scadenze del bilancio, era riuscito a tirar fuori il denaro dalle fonti più impensate. Ma ormai era acqua passata. Ormai, quattro treni speciali erano pronti per il viaggio inaugurale. Io m’ero imbarcata su quello in cui viaggiavano i delegati di un centinaio di fabbri-

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che, campioni del lavoro premiati con questo viaggio; c’erano poi decine e decine di giornalisti russi provenienti da tutte le Repubbliche, e due vagoni trasportavano i corrispondenti esteri di ogni parte del mondo. Ognuno di noi ben sapeva che la ferrovia avrebbe mutato corso alla storia dell’Asia, che avrebbe costituito il ponte tra il legname ed il grano siberiano e il cotone dell’Asia centrale, recato le merci ed il traffico russo fino alle frontiere occidentali della Cina, cingendo in pari tempo la frontiera dell'U.R.S.S. a sud-est con un sottile, continuo baluardo difensivo d’acciaio.

    Il nostro treno viaggiava senza orari, perché era il primo treno della Turk-Sib; procedeva sobbalzando sui binari appena posati, tirato da una locomotiva festosamente dipinta di verde, dono delle officine di riparazioni di Aulie-Ata i cui operai l’avevano costruita lavorando gratuitamente nel tempo libero. Tra questi volontari erano stati scelti i fuochisti, che ora guidavano giorno e notte, senza stancarsi mai, la “loro” locomotiva coperta di bandiere: l’inaugurazione della ferrovia Turchestan-Siberia era anche una loro vittoria personale.

     Lungo la linea già sorgevano nuove città, ancora rozzi stanziamenti di pionieri. A questi pionieri parlò Shatoff, improvvisando un comizio in ogni stazione: ricordava loro i momenti più duri della lotta, la fame e la sete patite nel deserto, le tormente di neve accecanti d’inverno quando “i burocrati” non avevano saputo provvederli di vesti adatte. Tra la folla c’erano madri con i pupi in braccio, e i pupi, osservava Shatoff, erano anche loro più vecchi di questa città. Poi parlava del nuovo mondo che il rozzo lavoro stava creando; un mondo migliore per i lavoratori di tutti i paesi. Vidi una piccola madre sparuta balbettare con gli occhi lucidi: «Un tipo in gamba il nostro capo!».

    Al punto d’unione dei due tronconi, sotto il sole cocente, si svolse una festa di russi e kazaki. Cerano kazaki nomadi venuti a cavallo da centinaia di chilometri di distanza per salutare il grande “cavallo di ferro”. Il braccio di una gru gigantesca battezzata “Marion dagli operai (su una targa si leggeva “Marion & C.”: era il

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nome della ditta costruttrice), faceva compiere giri panoramici a mezz’aria a coppie russo-kazake. Ragazzi e ragazze ballavano sulle traversine, al ritmo di una canzone che esaltava il «corsiero nero, più veloce di cento cavalli», il cui arrivo significava pane, lavoro, scuole, libertà dalla chiusa esistenza tribale. Il potere oppressivo dei capi tribù, però, era ancora lungi dall’esser crollato: quando i giovani tentarono di tenere per sé i premi e i trofei che erano dati ai migliori lavoratori, gli altri membri della tribù li assalirono, e strapparono loro dalle mani i premi per consegnarli ai capi. Era la tradizione tribale, che ora la nuova ferrovia veniva a minare.

    Sotto gli occhi delle 10.000 persone convenute in quel deserto per assistere alla cerimonia, le squadre che avevano posato i due tronconi sistemarono gli ultimi segmenti di rotaia. Gli ultimi bulloni furono ribattuti dai funzionari russi e kazaki, da Shatoff in rappresentanza degli operai, e infine dal settantenne Katayama, segretario generale del partito comunista giapponese e delegato della Terza Internazionale. Le martellate di Katayama sul bullone che metteva fine all’impresa avevano un significato chiaro per tutti: questa ferrovia era qualcosa di più che un ponte tra il grano e il cotone, qualcosa di più che non l’apertura di nuove terre ai pionieri, qualcosa di più che non un’arma offerta ai giovani, per combattere l’antica oppressione tribale. Essa era la rivoluzione mondiale in marcia nel cuore dell’Asia.

    Lungo la linea, gli operai che incontravamo, e che ben conoscevano l’importanza dell’opera, non facevano che chiedere alle persone imbarcate sul nostro treno chi era venuto a presenziare all’inaugurazione: non Stalin? Nemmeno Kalinin? E finivano per rassegnarsi alla presenza di personaggi di secondo piano, pensando al fatto che il viaggio da Mosca e ritorno richiedeva ben quindici giorni, e che in tutta la Russia sorgevano come funghi le grandi opere da inaugurare. A migliaia di chilometri verso occidente si stava ultimando sul Dnieper la più grande diga del mondo con le sue centrali elettriche. Nell’estremo nord nasceva aspramente Kuzbas, la città dell'acciaio. A Stalingrado, la più grande fabbrica di trattori

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del mondo avrebbe cominciato a funzionare a giorni, mentre la più grande officina del mondo per la costruzione di macchinario pesante era in costruzione a Sverdlovsk. «Primo tra i colossi del piano quinquennale» la ferrovia Turkestan-Siberia avrebbe forse meritato qualche onore particolare, ma dalla fucina di Efesto del piano quinquennale stavano ormai per uscire decine di giganti simili. 

Gli ingegneri americani assunti per contratto dalle autorità sovietiche per venire ad aiutare la realizzazione del piano, amavano ripetere che la piatiletka era tutto fuorché «un piano». Da un punto di vista strettamente tecnico, avevano ragione: il piano non fu mai uno schema preordinato da seguire punto per punto, era il traguardo di una battaglia da vincere ad ogni costo, per poi andare oltre. E a formularlo non

era solo Mosca, perché alla sua stesura partecipavano simultaneamente il Governo centrale e le istituzioni periferiche, anche le più remote. Nelle fabbriche e nei villaggi, i cittadini

sovietici discutevano le loro aspirazioni e bisogni e ne studiavano la possibilità di realizzazione; i singoli piani locali venivano poi trasmessi attraverso i meccanismi dell’organizzazione “al centro”; qui venivano coordinati e rinviati alla periferia per l adozione definitiva e la realizzazione.

L’intero paese, da Leningrado a Vladivostok, s’era trasformato in un immenso cantiere e, nel 1931, inviata dal Moscow News ebbi modo di vederlo in opera. Vent’anni dopo, quando fui arrestata a Mosca, la polizia sequestrò, quali prove della mia presunta “attività spionistica”, le note da me redatte in occasione di quel viaggio: i giganti del piano quinquennale erano diventati segreti d'interesse bellico. Ma nel 1931 chiunque poteva liberamente visitarli.

In quell’anno, si sentiva dire da più di uno che la fabbrica di trattori di Stalingrado era un buco nell’acqua; altri ne parlavano come di uno strepitoso successo. I primi e i secondi

contraffacevano ugualmente la realtà: in quel momento la fabbrica di trattori di Stalingrado non era né un' fallimento né un successo: era una battaglia durissima, la battaglia per la

prima catena di montaggio nell’U.R.S.S. In America per realizzare la produzione in serie c’era voluta un'intera generazione; in Russia bastò la battaglia di Stalingrado del 1931. Ma la

costruzione dell’immensa fabbrica richiese il sacrificio di molte giovani vite. Molti furono gli uomini che caddero sfiniti davanti alla bocca ardente delle fornaci nei caldi meriggi estivi.

Tre americani - Zivkovich, Covert e Minchuk – lavorarono sessanta ore di seguito, senza mai dormire, per riparare la macchina numero sette, essenziale per il funzionamento della catena di montaggio, e, a lavoro ultimato, barcollanti di fatica, più morti che vivi, si videro accolti dalle ovazioni generali.

La costruzione della fabbrica di trattori nel 1931 non fu un lavoro: fu una guerra.

Uomini fatti trattenevano a stento le lacrime, quando l’insegna col cammello, che marchiava i reparti rimasti al di sotto della norma fissata dal piano, venne inchiodata sulla porta

di una delle officine; operai che avevano speso le loro migliori energie, piangevano perché il reparto nel complesso non aveva saputo fare altrettanto, e si ributtavano al lavoro, decisi a ricuperare ad ogni costo il terreno perduto. Ma non era sufficiente che un uomo, centinaia di uomini si prodigassero senza risparmio: bisognava anche, e soprattutto, creare un’organizzazione. Gli uomini avevano appena superato un problema, che subito un altro particolare tecnico si presentava a fermarli finché non se ne fossero impadroniti. Bisognava imparare, e tener conto di mille elementi particolari contemporaneamente. Questo problema, prima d’allora, non era mai stato considerato in Russia.

La fabbrica sorgeva a nord di Stalingrado, a una ventina di minuti dalla città, su una strada abominevole. Il programma dei lavori comprendeva una nuova strada. Per ora, essa serviva da

banco di prova alle macchine che la percorrevano, rovinandole.

Si provvedeva intanto a installare nuove condutture d”acqua, perché quelle comunali si erano rivelate insufficienti alla fabbrica, e il rifornimento era mancato in pieno luglio. Si ampliavano

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-un anno dopo la fondazione della fabbrica - i magazzini, la cui insufficienza aveva fatto si che a un certo punto non si sapesse nemmeno quanti pezzi di ricambio c’erano a disposizione, col rischio che l’intera catena di montaggio fosse bloccata per la mancanza di un pezzo qualunque immagazzinato chissà dove un mese prima in centinaia d’esemplari. Era fin troppo chiaro perché Stalin insistesse tanto sulla necessità di un lavoro fondato sul «sistema, il calcolo, la responsabilità». Ognuno dei reparti aveva un proprio comitato di produzione. All’officina motori, gli argomenti più dibattuti erano: qualità della produzione e deficienze dell’attrezzatura minuta. Diceva un operaio: «I vari pezzi restano esposti al vento e alla sabbia e quando si fa per montarli risultano tutti incrostati di sudiciume. Prima di usarli bisognerebbe sistematicamente passarli col petrolio». Un altro rilevò che occorreva organizzare diversamente i collaudi: i radiatori dovevano essere verificati prima del montaggio, per non correre il rischio di doverli togliere un’altra volta dal trattore finito. Tutti erano concordi nel lodare quell’inviato della Pravda che aveva scoperto e denunciato un errore per via del quale si erano rovinati 60 motori. Il giornalista era completamente privo di conoscenze tecniche: tuttavia, aveva notato che la catena si era fermata perché un certo numero di motori non erano giunti in tempo. Esegui un’indagine per conto suo, dalla quale risultò che in tutti gli esemplari, in numero di sessanta, v’era un pezzo difettoso. Gli fu facile rintracciare l’officina dalla quale i pezzi erano usciti, e scoprì una taglierina la cui lama era intaccata, un’apprendista che non dava importanza alla cosa, e un ingegnere distratto che non eseguiva i necessari controlli. «Tu, proprio e solo tu hai bloccato il montaggio di sessanta trattori», urlò il giornalista sul viso all’ingegnere. La taglierina fu riparata, il difetto scomparve, e il montaggio riprese. Ma questo era solo uno delle migliaia di particolari cui bisognava provvedere. D’altra parte, fra le difficoltà che disorganizzavano la produzione, ve n”erano anche alcune di natura più fosca. Il sabotaggio per esempio. Ne tratteremo in un capitolo a parte.

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Si sarebbe mai arrivati a risolvere tutti insieme i diecimila problemi particolari di cui si compone la vita della fabbrica, tutti ugualmente importanti e necessari perché le cose marciassero? Sì, il diagramma della produzione a volte saliva altre volte discendeva, ma nel complesso c’era una netta tendenza all’aumento. Per due volte di seguito, i lavoratori delle officine si erano riuniti al grido di guerra, avevano lottato senza curarsi dei sacrifici, e avevano vinto: la prima volta, avevano messo in funzione la fabbrica per l’apertura del Congresso del Partito, nel giugno 1930, un lavoro incredibilmente rapido, compiuto superando innumerevoli difficoltà; poi riuscirono a completare il cinquemillesimo trattore allo scadere del primo anno. In entrambe le occasioni, molti dei dirigenti e quasi tutti i tecnici americani avevano dichiarato l’impresa irrealizzabile: tutte e due le volte la volontà degli operai, specialmente dei giovani del Komsomol, aveva realizzato l'impresa.

     «Abbiamo tali forze cui fare ricorso, che gli altri nemmeno se l’immaginano››, diceva Tregubinko, segretario dell’organizzazione di partito nelle officine. Lo avevo trovato a letto ammalato, e durante l’intervista fu un continuo piovere di telefonate. Tregubinko non si stancava di insistere sulla necessità del lavoro organizzato, sistematico, basato sulla stretta collaborazione tra i reparti, in altre parole, come avevano detto prima Lenin e ora Stalin, sul «sistema, il calcolo, la responsabilità», la cosa più difficile e la più necessaria da imparare in un paese agli albori dell’industrializzazione.

     Dappertutto c’erano i segni del fatto che là si stava imparando: nei lavori di riparazione della strada che portava in città; nelle prime leve degli specializzati che uscivano dalle scuole tecniche annesse agli impianti; nella mensa appena istituita le cui cucine potevano sfornare 11.000 pasti al giorno; nella crescente collaborazione tra i tecnici americani e i russi; persino nei chioschi che distribuivano orzata e birra ghiacciata per evitare che, come era accaduto l’anno prima, gli operai assetati si buscassero il tifo dall’acqua del Volga. La mia visita aveva avuto luogo in agosto; quattro mesi più tardi, le officine raggiunsero la media di centodieci trat-

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tori al giorno: si era “in pari col piano”, la battaglia per la prima catena di montaggio sovietica era vinta. Dodici anni più tardi, gli uomini della fabbrica trattori di Stalingrado, a bordo dei carri armati usciti dalla loro officina, snidavano i soldati di Hitler dalle rovine della fabbrica

      Alle officine trattori di Kharkov chiunque, ucraini , russi e americani che vi lavoravano, poteva dire quale passo avanti esse fossero rispetto a Stalingrado. Era vero, ma non bisognava dimenticare una cosa: Stalingrado aveva aperto la strada, e gli errori e le fatiche dei pionieri servivano ora da base alle nuove esperienze. Fu Raskin, un tecnico americano, a farmi da guida. A Stalingrado, sull’uscio del reparto fonderia, avevo visto l'insegna del cammello. Lo stesso reparto, a Kharkov, vantava ben venti miglioramenti rispetto al modello; Stalingrado aveva avuto in dotazione splendide macchine, appena giunte dall’America, e i rozzi apprendisti, appena usciti dal villaggio, le aveva- no per metà rovinate. A Kharkov, gli operai ci sapevano fare: avevano imparato da Stalingrado. Tutti i reparti sussidiari, magazzinaggio, trasporti, servizi, avevano guadagnato dall’esperienza, ed erano migliori a Kharkov che a Stalingrado. Quei miglioramenti che nel sistema capitalistico sono imposti dalla concorrenza, si avvantaggiavano, qui, del libero scambio delle esperienze. Kharkov partiva con tutta l'esperienza di un anno di lavoro da pionieri ricevuta da Stalingrado.

    Le officine di Kharkov presentavano un problema speciale. Esse venivano costruite “fuori del piano”. I contadini entravano nelle fattorie collettive più rapidamente del previsto, e bisognava trovare il modo di far fronte alle impetuose richieste di trattori: così Kharkov, orgogliosa cittadella dell"Ucraina, aveva deciso di costruire la sua fabbrica, “al di fuori del piano quinquennale”. É difficile immaginare, da noi in America, che cosa questo significasse: tutte le assegnazioni di acciaio, mattoni, cemento, mano d’opera, erano già state fissate per cinque anni. Kharkov poteva ottenere il suo acciaio, per esempio, solo inducendo qualche acciaieria a lavorare “oltre

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il piano”. Per sopperire alla scarsezza di mano d’opera comune, decine di migliaia di persone - impiegati, studenti, professori - si offersero di lavorare volontariamente nei giorni di riposo. Poiché la settimana moscovita a quell’epoca era di cinque giorni, con turni di riposo alternati, un quinto della popolazione aveva giornata libera ogni giorno. «Ogni mattina alle sei e mezzo - mi diceva Mr. Raskin - arriva il treno speciale che porta, musiche e bandiere in testa, volontari tutti i giorni diversi, ma sempre ugualmente allegri». Risultò poi che i volontari avevano compiuto metà del lavoro non specializzato per la costruzione delle officine.

       Cerano due punti dai quali si potevano osservare i cantieri di Kusnetsk: visti dal “corso”, era il caos; guardando giù dalla collina, si cominciava a capire il risultato. Riporto qualche passo dal mio taccuino di viaggio. Ho battezzato “corso” la strada, in realtà ancora senza nome, che costituisce la spina dorsale del cantiere: una pista angusta tra montagne di detriti, tubature e travi, due carri affiancati possono transitare a malapena, sobbalzando tra le buche. É mezzogiorno. Per farmi strada, devo di continuo dare una voce ai conducenti, scansare i cavalli, salvarmi nello spazio che resta tra due cataste di legname. Passa una fila di uomini i quali reggono una pesante armatura, e per qualche minuto bloccano il traffico. I pedoni hanno scoperto un passaggio: si infilano in certi giganteschi segmenti di tubi, schierati lungo la strada, abbastanza larghi perché un uomo possa per- correrli all’interno piegandosi in due. Il “corso” è attraversato da una dozzina di binari della ferro- via, e il traffico dei carri si arresta quando una lunga fila di vagoni va avanti e indietro, carica di grandi lastre d’acciaio destinate agli altiforni. Per deporre il carico dei vagoni occorre trovare un po’ di spazio disponibile nel caos, e così può accadere che il treno faccia manovra per venti minuti mentre i carri sono fermi. Quando i vagoni se ne sono andati, avanza un enorme carro di fieno che minaccia di bloccare un’altra volta la strada,

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ma finalmente gli altri veicoli riescono ad aggirare l’ostacolo. Da un grosso camion scendono una dozzina di robuste contadine, dan mano alle vanghe e prendono a caricare detriti proprio da sotto la centrale elettrica. I detriti avrebbero dovuto essere rimossi già un anno fa. C ‘è ancora circa un milione di metri cubi di rifiuti da eliminare.

       Dal “corso” si dipartono dei tratturi in due direzioni: da qui ai forni a coke, agli altiforni, alla centrale elettrica; dall’altra parte verso il reparto caldaie, la fonderia, i forni all’aperto e lo scheletro dei futuri laminatoi. Sono sentieri incerti e pericolosi, che si arrampicano faticosamente sul fianco della collina, scavalcando mucchi di detriti; il loro tracciato muta ogni giorno con lo sviluppo delle costruzioni, un labirinto nel quale solo gli addetti riescono ad orientarsi.

      Da due giorni piove, e l’enorme caos del “corso” è sommerso dal fango siberiano. Il fango entra nelle scarpe, rende impraticabili ai carri i sentieri sui fianchi delle colline. Il rendimento del lavoro diminuisce nel complesso del venticinque per cento.

     Dai tecnici americani, gli ingegneri russi, gli ispettori, i giornalisti, non sentite che critiche. Perché tutto funziona in maniera così incoerente? Perché i vari reparti - altiforni, forni a coke, centrale elettrica - devono disputarsi l'uso dei binari? Perché devono strapparsi a vicenda gli uomini? Perché manca lo spazio necessario allo scarico dei materiali e non si è provveduto a tracciare una strada decente? Chiunque faccia parte del cantiere può dirvi come si sarebbero dovute fare le cose: prima le strade e la ferrovia, il reparto carpenteria, gli alloggi, i magazzini, lo sterro, le condutture dell’acqua e le fognature; poi la rimozione dei detriti; infine, le opere murarie. Finite queste, installare i macchinari, eseguire i necessari collaudi, dare il via alla produzione. E tutti vi ripetono lo stesso ritornello.

    Francfort, il direttore del cantiere, lo sa anche lui: «Il progetto è stato cambiato nel corso della costruzione: i giapponesi avevano invaso la Manciuria, e la Russia aveva bisogno di più acciaio. Si doveva scegliere: o procedere alla maniera classica - e questo avrebbe significato mettere in piano un

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anno di più - o far tutto in una volta. Abbiamo scelto la seconda via. Aggiungi, in primo luogo, che noi ingegneri russi non abbiamo esperienza nella costruzione di questo tipo moderno di acciaierie, e, in secondo luogo, che non c’è neanche la speranza di avere i materiali come prevede il piano».

    «In America non avete che da attaccarvi al telefono e ordinare, che so, dieci vagoni di mattoni refrattari. Ve li danno in pochi giorni. Noi invece ne abbiamo ordinati un carico un anno e mezzo fa. Per quattro mesi ci sono mancati i refrattari indispensabili agli altiforni, poi all’improvviso il carico arriva e, siccome non avevamo spazio, abbiamo dovuto sistemarlo un po’ dappertutto, rubando lo spazio agli altri lavori. L’acciaio di cui avevamo bisogno avrebbe dovuto arrivare in maggio: è arrivato in settembre. E questo succede perché troppi carri ferroviari finiscono sui binari morti, con conseguenti gravissimi ritardi: la nostra rete ferroviaria e sovraccarica di treni che trasportano i materiali più vari da tutte le regioni della Russia e dall’estero››.

     Il giorno seguente alla conversazione con Frankfort, il fango s’è un po’ rassodato e saliamo sulla collina. Sorpassiamo il cantiere da cui sorgeranno i progettati quartieri d’abitazione, e ci troviamo tra le capanne di mota e paglia erette dalle decine di migliaia di contadini che si sono riversati sulle colline, in cerca di lavoro. Non trovando abitazioni, si sono arrangiati come potevano, rubando dal cantiere un po' di legname, qualche mattone, qualche lastra di vetro. A lungo andare quando i furti di materiali si accumulano e cominciano a provocare difficoltà, la polizia deve intervenire.

   Da quassù abbiamo sottocchio l’intero panorama di Kusnetsk. Nella vallata, su un fronte di cinque chilometri, gli impianti della nascente acciaieria; proprio dirimpetto a noi si levano le otto gigantesche torri nere della fonderia. Un anno fa, quando sono venuta qui la prima volta, non c’erano che gli scavi delle fondamenta e uomini intenti a spalare il fango con piccoli badili e a portarlo via su assi o in cassette, alla vecchia maniera asiatica. Ora il primo altoforno si prepara a

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entrare in funzione: dalla sua sommità si snoda un candido pennacchio di vapore. Per settimane il forno dovrà essere scaldato a bianco, prima che masse di minerale ferroso, coke albanese, riempiano il torrione all’imboccatura e lentamente sprofondino ardendo. Il carbone c’è. «Il ferro è in arrivo›› telefona  Magnitogorsk sugli Urali, a duemila chilometri di distanza. L’attesa si misura ormai a ore: fra pochi giorni un moderno impianto produrrà il primo acciaio della Siberia.

       Dietro gli otto torrioni giganteschi, si profilano una decina di possenti strutture, le alte ciminiere nere e le massicce muraglie di cemento dei forni a coke; poi l'edificio della scuola professionale: seimila contadini vengono trasformati in operai specializzati. La centrale elettrica è un edificio di sette piani: la prima delle sue turbine comincerà a ruotare tra pochi giorni. Più in là lo zig zag del tetto a capannoni della fonderia che, ancora incompleto, ha tuttavia già prodotto duecento tonnellate di fusione. Dietro, a sinistra, il forno all’aperto, che sarà messo in funzione in un secondo tempo ed è costruito sulla più grande scala realizzata nel mondo finora. Ancora più lontano, un alto colonnato d’acciaio, che si leva da una base di cemento: qui sorgerà il laminatoio, di dimensioni eguali a quello di Gary, che è il maggiore del mondo.

       Ma non è tutto: dopo il ciglio della collina, a notevole distanza dal punto in cui ci troviamo, sempre a sinistra, distinguiamo la fabbrica di refrattari, costata due milioni e mezzo di dollari ed eretta al solo scopo di fornire mattoni costantemente necessari ai forni; poi i lavoratori viaggianti della organizzazione Stalinost che inchiodano le lamiere per il reparto caldaie; poi l’officina delle caldaie e quella delle riparazioni macchine, già in funzione. In fondo, appena visibili nelle brume della pianura, le fornaci che producono i mattoni per la nuova città, e la grande segheria da cui escono le case prefabbricate.

   Due anni fa, questa era una vallata solitaria, con un villaggio di millecinquecento anime, addormentato nell’oblio. L’anno scorso, c’era già qualche baracca, il tracciato dei primi scavi; ora, la nuova città si prolunga nella valle fino agli estremi limiti del-

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l’orizzonte, e accanto a coloro che vivono ancora in capanne e baracche, altri hanno già occupato i casamenti a quattro piani della “città socialista”. Così una ferriera che sarà tra le più grandi del mondo, è sorta nelle solitudini siberiane.

  Ma non è stato Frankfort a costruirla, né gli specialisti americani, e neppure i 45.000 operai che hanno partecipato all’impresa. Tutta l’U. R. S. S. ha contribuito: dalle fonderie di Leningrado alle officine dell`Ucraina. Per tutto il paese era corsa la parola «Forza per Kusnetskl». Rispondendo all’appello, i lavoratori si sono prodigati dappertutto; ciascuno mandava avanti il lavoro per la sua parte. Durante la mia visita assistei all’arrivo di un singolare treno da Leningrado, che era partito come un treno solo e si era raddoppiato per strada. Una “brigata d’assalto” composta di operai leningradesi si è messa di scorta al convoglio, con lo scopo di setacciare le sonnacchiose stazioni siberiane, alla ricerca dei vagoni diretti a Kusnetsk e finiti su qualche binario morto. Trentanove erano i vagoni alla partenza, novanta quelli arrivati: il treno degli operai di Leningrado aveva messo in subbuglio i capistazione di tutta la linea.

   Questa, era l’acciaieria di Kusnetsk: sperdute colline siberiane, contadini da trasformare in operai, materiali scaglionati lungo 3.500 chilometri di strada ferrata, e di contro a questo, le brigate d”assalto di tutta l”U.R.S.S., composte da lavoratori che non volevano lasciar fallire Kusnetsk. Perché Kusnetsk apriva la strada all’industrializzazione della Siberia. Essa aveva già trasformato migliaia di contadini in operai siderurgici e dato esperienza preziosa a centinaia di ingegneri. Un’altra acciaieria, due volte più grande, doveva essere costruita subito dopo, un poco più a valle. «Due volte più grande» ognuno lo diceva con la massima naturalezza, e aveva ragione. Dopo Kusnetsk, nessun altro impianto industriale avrebbe dovuto superare le stesse difficoltà, in Siberia.

     Più grande ancora di Kusnetsk, Magnitogorsk (che, letteralmente, significa montagna di magnete). Ci manca lo spazio per narrarne la storia; basterà ricordare che in un anno e mezzo, sui

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pendii degli Urali, sorse dalla terra una città di 180.000 abitanti a ottocento chilometri di ferrovia da qualunque altro importante centro abitato. Fu il più grande quartiere edile del mondo, sorto sul luogo che vantava un altro primato: il deposito di minerale ferroso a più alta concentrazione del mondo. Ne nacque una città operaia tutta fatta di giovani, una città dove il sessanta per cento dei lavoratori non aveva ancora raggiunto i ventiquattro anni, e nella quale si eran date convegno trentacinque nazionalità diverse. Quando io la visitai c’erano già tredici scuole, un istituto tecnico e due facoltà universitarie per la specializzazione in ingegneria meccanica e in edilizia. Nel secondo anno, i pionieri di Magnitogorsk avevano già il loro teatro "comunale, cinque o sei cinematografi, un circo «migliore di quello di Sverdlovsk».

   Anche questa città esisteva in funzione del ferro e dell’acciaio: quello che Kusnetsk era per la Siberia, lo sarebbe stato Magnitogorsk per la regione degli Urali, e anche Magnitogorsk doveva la sua nascita agli sforzi congiunti dei lavoratori di tutta l’U.R.S.S. Anche qui le giovani leve operaie introducevano nuovi sistemi produttivi, imparavano a ridurre i tempi di lavorazione, in una continua gara di emulazione con Kusnetsk.

      Magnitogorsk e Kusnetsk non erano che due tra le dozzine di giganti creati dal piano quinquennale.

      Nel gennaio 1933, Stalin, nel suo rapporto al Comitato centrale, comunico che la retrograda Russia contadina era diventata il secondo paese industriale del mondo. Il primo piano quinquennale era stato portato essenzialmente a termine in un tempo minore del previsto: quattro anni e tre mesi dall’ottobre 1928 al dicembre 1932. Il numero degli operai impiegati nell’industria era passato da 11 a 22 milioni; anche la produzione era raddoppiata. Prima - disse Stalin - non avevamo un’industria siderurgica e metallurgica. Ora l’abbiamo. Non eravamo in grado di costruire trattori. Ora lo siamo. Non avevamo un’industria automobilistica. Ora l’abbiamo. Non producevamo macchine utensili. Ora le produciamo.

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   L’elenco continuava attraverso l’industria aeronautica, quella per la produzione di macchine agricole, l’industria chimica, e le altre, concludendo: «Abbiamo costruito tutto su scala tale da far impallidire l’industria dell’Europa occidentale». La realizzazione del piano era stata resa possibile solo dallo spostamento di intere popolazioni, e quindi a scapito della produzione agricola; ma mai nella storia s’era verificato un simile progresso in così breve spazio di tempo. Il popolo sovietico era convinto che, se il ritmo fosse stato meno veloce, non solo la costruzione del socialismo sarebbe stata ritardata, ma la sua stessa esistenza come nazione sarebbe stata in pericolo. Nel 1933, il Giappone già saggiava le frontiere sovietiche dalla parte della Manciuria, e i nazisti tedeschi proclamavano le loro pretese sull’Ucraina. Il popolo sovietico era convinto di poter fronteggiare l’invasione su ambedue le frontiere solo grazie alla rapida ascesa della sua potenza economica.

    «Non potevamo fare a meno - disse Stalin in quel rapporto del gennaio I933 - di spronare in avanti un paese che era in arretrato di cento anni e che, a causa della sua arretratezza, era minacciato da un pericolo mortale. Senza questo sforzo, saremmo stati un paese inerme nel mezzo di un accerchiamento capitalistico armato della tecnica moderna».

    Il primo piano quinquennale era stato appena portato a termine, che già l’U.R.S.S. dava il via al secondo, col proposito di edificare un’industria cinque volte maggiore di quella creata dal primo, riorganizzando tecnicamente in pari tempo l’intero sistema produttivo. Ma il nuovo compito, come ebbe ad affermare Stalin, sarebbe stato «indubbiamente più facile». Nessuno dei successivi piani quinquennali avrebbe più dovuto superare gli ostacoli affrontati dal primo. I piani di cinque anni divennero il passo con cui la nazione sovietica marciava in avanti.

   Nel 1935, i dirigenti dell°U.R.S.S. cominciarono a parlare di socialismo vittorioso. La base economica per la sua realizzazione era ormai assicurata.

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   Un anno prima, mentre in tutto il paese risuonava la parola d’ordine: «La seconda tappa si chiama qualità ed incremento della produzione», tornò da un viaggio in Siberia un inviato speciale del Moscow News. «Volete sapere le ultime novità da Kusnetsk? - ci disse entrando in redazione - si son messi in gara con Magnitogorsk per le più belle aiuole!››.

    Demmo tutti in una gran risata. Kusnetsk non era quella pozza di fango, in cui, tra pidocchi, e sudiciume, migliaia di uomini s’arrabattavano per costruire la città dell’acciaio? Forse con le fonderie, potevano competere: ma una gara per le belle aiuole, via, era troppo!

    «Vi dico che è cosi - insiste l’inviato. - E non si sono sfidati solo per i fiori, ma anche per i parchi, i viali alberati, i circoli operai. Magnitogorsk possiede ormai giardini e ottime linee di autobus, ma Kusnetsk, in compenso, ha già una linea tranviaria e ha fatto venire da Mosca una compagnia teatrale. Quella di Mayerhold, per la precisione».

 

 

III

La rivoluzione nell’agricoltura pagg. 77-94

 

 

     Gli anni che videro il rapido sviluppo dell'industria socialista videro anche una rivoluzione altrettanto rapida nell’agricoltura. Fra il 1930 e il 1933, circa 14 milioni di piccoli inefficienti ap- pezzamenti contadini furono fusi in circa duecentomila grandi fattorie, a proprietà collettiva e a gestione collettiva, serviti da macchine e trattori. Il mutamento era necessario per portare la prosperità agli agricoltori e la sicurezza alla nazione. Infatti nel 1928 l’agricoltura russa tradizionale non era nemmeno in grado di rifornire le città; essa non avrebbe mai potuto fornire i viveri necessari alla rapida industrializzazione e allo sviluppo dell’istruzione e della cultura. L’agricoltura doveva essere rimodernata insieme con l’industria. I contadini russi, nel 1928, coltivavano la terra con metodi medioevali che risalivano indietro ai tempi biblici. Vivevano stretti nei loro villaggi e di lì raggiungevano i campi camminando per molti chilometri. Il podere familiare di due o cinque ettari era spesso frazionato in una dozzina di appezzamenti,

a volte dispersi in zone diverse, e per lo più così ridicolmente piccoli da non potervi neanche girare l’erpice. Il venticinque per cento dei contadini non possedeva nemmeno un cavallo; meno del cinquanta per cento disponeva di una pariglia di cavalli o di buoi; così l’aratura avveniva a grandi intervalli, e il vomere grattava appena il suolo: era ancora in uso il vomere di legno, sbozzato dallo stesso contadino e senza una punta di metallo. La semina si faceva a mano, spargendo sulla terra la semente portata in un grembiule; così molta se la prendevano gli uccelli o la portava via il vento. Le macchine agricole erano

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   quasi ignote: il trattore Fordson che avevo portato con me per una colonia di ragazzi sul Volga, divenne celebre come il solo trattore in un raggio di trecento chilometri.

    Altrettanto medioevali erano i rapporti sociali. Il vecchio dirigeva la casa. I figli maritati portavano le mogli nella casa patriarcale e lavoravano nella fattoria che il padre continuava a dirigere. Così i metodi di coltivazione rimanevano quelli antichi, né le vedute dei giovani potevano mutarli. Gran parte di questi metodi venivano determinati dalla religione. Le festività religiose indicavano i giorni di semina, le processioni aspergevano i campi con acqua santa per assicurarne la fertilità, la pioggia veniva auspicata mediante processioni e preghiere. I più osservanti consideravano i trattori “macchine infernali”, e vi furono dei preti che guidavano i contadini a lapidarli. Qualsiasi battaglia per un’agricoltura moderna diveniva cosi una battaglia “contro la religione”. Ricordo la tremenda campagna che i giovani comunisti condussero contro Sant’Elena per ottenere una semina anticipata nella provincia di Ivanovo, dove per secoli la festa di Sant’Elena ne aveva segnato l’inizio.

     Nel 1928, le fattorie si erano riprese dalle distruzioni belliche; il raccolto globale uguagliava quello dell'anteguerra. Una quantità molto minore di grano, comunque, giungeva nelle città. La Russia zarista esportava il grano anche se i contadini morivano di fame. I contadini sovietici mangiavano meglio di prima, ma commerciavano poco. L’eccedenza spesso finiva nelle mani dei kulak, quei piccoli capitalisti di campagna che avevano il grano non solo dai loro campi ma anche perché possedevano mulini e perché prestavano denaro in cambio dei raccolti. Essi combattevano lo Stato per via del controllo del grano e per via del sostegno che esso dava ai contadini. La destra del partito comunista sosteneva che bisognava permettere kulak  di arricchirsi e che il socialismo aveva la possibilità di vincere attraverso la proprietà collettiva statale delle industrie. La sinistra era per una rapida collettivizzazione forzata sotto il controllo dello Stato. Per parecchi anni la politica del Partito ondeggiò sotto la spinta dei diversi gruppi.

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    Infine, la linea adottata fu quella di attirare i contadini nelle fattorie collettive offrendo crediti statali e trattori, di bloccare i kulak ai margini di questo processo mediante l’applicazione di alte imposte, e, più tardi, di «distruggerli come classe». L’appartenenza alle fattorie collettive era in teoria volontaria, in pratica talvolta furono esercitate pressioni che giunsero all’eccesso.    In America si scrive spesso del sistema delle fattorie collettive come di una costrizione voluta da Stalin, arrivando a dire che egli fece morir di fame deliberatamente milioni di contadini per far sì che tutti entrassero nelle fattorie collettive. Tutto questo è semplicemente falso. lo viaggiai lungamente per le campagne sovietiche in tutto quel periodo, e ho visto coi miei occhi come si svolsero le cose. Certamente, Stalin appoggio la trasformazione e le fece da guida. Ma la tendenza alla collettivizzazione si sviluppò tanto più rapidamente di quel che Stalin aveva calcolato, che ben presto non ci furono abbastanza macchine per le nuove fattorie, né quadri amministrativi e tecnici in numero sufficiente. Le pie speranze in cui si consolava la vecchia inefficienza contadina, unite all’ondata di panico promossa dai kulak, che determinò un massacro in massa del bestiame, e a due annate successive di siccità, portarono alle gravi difficoltà alimentari del 1932. Due anni dopo le pretese costrizioni di Stalin, Mosca fece superare il passo al paese con un razionamento rigidissimo introdotto su scala nazionale.

    Ho visto la collettivizzazione piombare come una tempesta sul basso Volga nell’autunno del 1929. Era una rivoluzione ne che provocava mutamenti più profondi di quelli della Rivoluzione  del 1917, della quale, del resto, era il frutto ormai maturo. I braccianti e i contadini poveri prendevano l’iniziativa, sperando di migliorare il loro stato con l’aiuto del Governo. I kulak combattevano il movimento aspramente, con tutti i mezzi, che arrivavano fino all’incendio e all’assassinio. I contadini medi, la vera spina dorsale del’agricoltura, erano combattuti tra la speranza di divenire kulak e il desiderio di

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ottenere le macchine dello Stato. Ma ormai che il piano quinquennale prometteva i trattori, questa grande massa di contadini cominciava a muoversi, a interi villaggi, a intere circoscrizioni, a intere regioni, per entrare nelle fattorie collettive.

   Il presidente dell’Unione delle fattorie collettive di Atkarsk mi sventolò davanti un fascio di telegrammi (sei mesi prima la sua organizzazione non esisteva neppure): «Il 20 novembre, la nostra regione era collettivizzata al cinquanta per cento - egli disse esultando. - Il 1° dicembre al sessantacinque per cento. Aggiorniamo le statistiche ogni dieci giorni. Per il 10 dicembre ci aspettiamo di essere giunti all’ottanta per cento».

    Pochi mesi prima la gente aveva discusso tranquillamente sulle fattorie collettive, vagliando il guadagno che ne sarebbe venuto per l’area seminata e i vantaggi offerti dai trattori. Ma adesso la campagna era scossa come da un improvviso risveglio. Un villaggio si organizzava come una singola entità, poi decideva con una votazione di associarsi ad altri venti per metter su un mercato cooperativo e un mulino. Un giorno Samoiloka deteneva il primato con una fattoria di 350.000 acri. Poi Balakov annunciava 675.000 acri; poi Yelan fondeva quattro grandi comuni in una fattoria di 750.000 acri. Venendone a conoscenza i contadini di Balanda urlavano nell’assemblea: «Facciamoci coraggio! Fondiamo le nostre due circoscrizioni in una fattoria di un milione di acri››. Mille cavalli vennero portati  sui. campi a Balanda per una prova generale della semina. Un vecchio di settanta anni correva davanti all’obiettivo della macchina fotografica: «Fotografatemi insieme con i cavalli: adesso posso morire, non avevo mai visto un giorno come questo».

    Nel mezzo di queste discussioni s’inserivano gli organizzatori del Partito; talvolta esperti di agricoltura che davano dei consigli, altra volta lavoratori digiuni di agricoltura ma ardenti di zelo collettivistico. «Non sono troppi mille cavalli su un campo? Può essere eccitante, ma è un buon metodo di coltivazione?››. Ci si accalorava nelle discussioni e si litigava. Più tardi, Mosca doveva denunciare la “malattia del giganti-

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smo”. Ma sulle prime gli entusiasti definivano ogni cautela “controrivoluzione”. La questione divideva le famiglie: i giovani seguivano gli entusiasti, desiderosi di attuare finalmente nuovi metodi. I vecchi esitavano: comprendevano che, insieme al piccolo 'podere personale, se ne andava il vecchio dominio patriarcale della famiglia. Le donne si preoccupavano della sorte dei loro animali che avevano sostentato la famiglia, la vacca, il pollame: quali animali dovevano diventare proprietà collettiva non era ancora del tutto chiaro, e c’erano svariate forme di collettivo.

    I kulak e i preti offuscavano i nuovi orizzonti mettendo in giro delle voci, giocando sul sesso e sulla paura. Dovunque sentii parlare di “una grande coperta” sotto la quale gli uomini e le donne delle fattorie collettive avrebbero dormito tutti insieme! Dovunque, le voci dicevano che i bambini sarebbero stati “socializzati”. In alcuni posti i kulak  entravano nelle fattorie collettive per dominarle o rovinarle. Altrove essi venivano espulsi dai collettivi come indesiderabili. Alcune fattorie collettive accettarono i cavalli dei kulak ma non i  kulak e, secondo quanto era stato fatto nella rivoluzione con l’attrezzatura dei latifondisti. I kulak rispondevano bruciando i granai collettivi e persino con l’assassinio. Un processo a dodici kulak per l”assassinio di un segretario del Partito si stava chiudendo ad Atkarsk. «Egli è morto per tutti noi›› dichiarò il Pubblico Ministero; il pubblico di contadini pianse. La tempesta della collettivizzazione dilagò di più quando le fattorie furono intitolate ai martiri. 

    Quando lasciai la zona, chiesi a un funzionario locale che cosa dicesse Mosca di questo o quello. Egli rispose frettolosamente ma con orgoglio: «Non possiamo aspettare ciò che dice Mosca; Mosca fa i suoi piani secondo quello che facciamo noi».

    Mosca stava facendo i suoi piani, lo appresi quando vi feci ritorno. Le notizie da tutte le zone granarie fondamentali venivano coordinate nei piani del centro. Il piano quinquennale aveva fissato l’obiettivo della collettivizzazione al venti per cento per il 1933: la grande ondata fece si che si raggiungesse in alcune zone il sessanta

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per cento già nel 1930. Né la produzione dei trattori, né quella di altro macchinario era stata pianificata in modo da far fronte a cose di questo genere. Così Mosca ridusse all’osso l’importazione di cotone grezzo condannando la gente ad altri anni di stracci. Mosca annullò un’

ordinazione di caffè brasiliano a prezzi d’occasione e si fece nemico il Brasile. Mosca aumentò l’importazione di macchine agricole e in breve si fece amico Henry Ford. Fu in quel momento che Karkhov decise di costruire la sua fabbrica di trattori “fuori del piano”, per far fronte alle richieste dell’Ucraina.

    Nel pieno dell’inverno andai a visitare la prima stazione di trattori, che sorse nella regione di Odessa. Un tecnico agrario della zona, di nome Markovic, aveva escogitato un metodo efficace ed economico per fornire le macchine alle fattorie. Invece di vendere i trattori ai contadini, che non sapevano condurli o provvedere alla manutenzione, Markovic teneva alcune dozzine di trattori in un unico centro, dotato di equipaggiamento meccanico completo, officina di riparazione e scuola di guida. I trattori lavoravano su contratto nelle fattorie collettive della zona, entro un raggio di 30 e più chilometri; la stazione forniva le macchine per ogni tipo di lavoro di cui le fattorie avevano bisogno, e riceveva pagamenti in grano. Gli accordi erano assai flessibili: una fattoria abbastanza ricca, con molti cavalli, affittava i trattori solo per scassare terreni vergini, mentre in una fattoria di pionieri ebrei, che avevano ricevuto da poco la terra dallo Stato ma mancavano quasi del tutto di animali, la maggior parte del lavoro sui campi veniva eseguito dalla stazione di trattori. Le Stazioni di macchine e trattori di proprietà statale si rivelarono tanto vantaggiose, che ben presto si diffusero in tutta l’U.R.S.S., e oggi rappresentano la forma dominante di fornitura di macchine.

    L’inverno del 1929-30 fu un periodo di caos considerevole. Non era ancora chiaro quale  dovesse essere esattamente la forma delle fattorie collettive. Stalin, che anche lui faceva i suoi piani traendoli dall’azione dei contadini, affermò il 27 dicembre 1929 che era venuto il tempo di «abolire i kulak come classe». Ciò autorizzava semplicemente quello che i contadini po-

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veri stavano già facendo, ma, avuta l’autorizzazione, essi cominciarono a fare di più. Cominciarono a giungere crudeli storie di case di kulak scoperchiate, di deportazioni caotiche. Intanto, gli organizzatori, lanciati sulla via dei records, forzavano i contadini a costituire le fattorie collettive minacciandoli di deportarli come kulak; mettevano in comune le vacche, le oche, i polli, perfino i piatti e la biancheria. I  kulak esageravano enormemente questi eccessi e incitavano i contadini a uccidere le scorte vive e a mangiarle, e a «entrare nudi nelle fattorie collettive, dove lo Stato vi mantiene tutti››.

    «Perché Stalin non mette un freno a tutto questo? -- chiesi a Un amico comunista - un kulak non ha diritti? Questo è il caos!»

     «In realtà c’è troppa anarchia - egli rispose; - deriva dalle divisioni che esistono nel Partito; la colpa è di noi comunisti. Stalin ha stabilito la linea: abolire i kulak come classe. Gli elementi di destra, che controllano l’apparato del Governo, (sapevo che alludeva a Rykov) ritardano la traduzione di questa linea in leggi. Intanto, gli elementi di sinistra fra i nostri dirigenti locali, non avendo nessuna legge a guidarli, fanno ciò che è giusto ai loro occhi e agli occhi dei braccianti e dei contadini poveri. Questa è anarchia. Speriamo che i decreti governativi vengano al più presto: allora ci sarà più ordine».

    Il primo decreto fu emanato il 5 febbraio 1930: autorizzava la deportazione dei kulak nelle zone dove la collettivizzazione era ormai totale e dove le assemblee dei contadini chiedevano la deportazione di una determinata persona, dopo un’inchiesta. La lista doveva poi essere controllata dalle autorità provinciali, e bisognava organizzare l’insediamento nelle zone dove i kulak erano destinati ad andare. In genere, essi venivano mandati in cantieri o in terre vergini in Siberia. Dopo il decreto l’anarchia diminuì, ma pareva che ci fossero ancora molti errori ed eccessi. Perché Stalin non prese in mano la situazione?

   «Non possiamo attaccare i nostri dirigenti locali finché il seme collettivizzato non sarà nei granai collettivi, e la semina assicurata - disse il mio amico comunista. - Altrimenti potrebbe dilagare la carestia». Egli voleva dire che i contadini, i quali già avevano mangiato  

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le scorte vive e aspettavano ora che lo Stato li nutrisse, potevano mangiare anche il grano destinato alla semina. «Siamo come uno sciatore su un ripido pendio - aggiunse -non possiamo fermarci né controllare la velocità o la distanza. Possiamo soltanto dirigere i nostri salti e cercare di arrivare fino in fondo in piedi. Se non ci riusciamo, allora tutto è finito››. Sapevo ciò che questo voleva dire, perché quando ero andata a Riga a rinnovare il mio passaporto - a quel tempo Washington non aveva ancora un’ambasciata nell’U.R.S.S. - avevo trovato delle persone nel consolato americano che impiegavano tutto il loro tempo a raccogliere dati sulla collettivizzazione sovietica attraverso le statistiche dei giornali locali sovietici. Poi mandarono al Dipartimento di Stato un rapporto di mille pagine. Gli stranieri predicevano il collasso dell’Unione Sovietica attraverso la carestia, e da più di uno Stato confinante giungeva notizia che gli eserciti venivano preparati per esser pronti a marciare.

    Il 2 marzo 1950, quando le zone agrarie fondamentali ebbero compiuto la loro raccolta di sementi, Stalin fece la sua famosa dichiarazione sulla “Vertigine del successo”. Disse che la rapidità con la quale i contadini entravano nelle fattorie collettive aveva «dato le vertigini ad alcuni compagni». Ricordo a tutti che la partecipazione ai collettivi era volontaria e che la forma di fattoria collettiva raccomandata per quel periodo prevedeva solo la socializzazione della terra, degli animali da tiro e del macchinario di maggior mole, mentre rimanevano proprietà personale gli animali domestici, come le mucche, le pecore, i porci, le galline. La dichiarazione fu riprodotta integralmente in tutti i giornali del paese, e milioni di copie ne circolarono in opuscolo. I contadini andavano in città e pagavano alti prezzi per l”ultima copia rimasta, per poterla sventolare in faccia agli organizzatori locali come la carta della loro libertà. Di colpo, Stalin divenne l’eroe di milioni di contadini, il loro difensore contro gli eccessi compiuti localmente. Stalin freno rapidamente questa sorta di idolatria pubblicando le Risposte ai compagni colcosiani, nelle quali si diceva: «Alcuni parlano come se Stalin da solo avesse fatto quella dichiarazione. Il Comitato centrale non permette... azioni simili da parte di un solo individuo. La dichiarazione era….. del Comitato centrale».

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 Verso la fine di marzo andai verso il sud, incontro alla primavera. La trovai a ventiquattro ore di treno da Mosca, sulla linea di Stalingrado. Scesi in una stazione di campagna dopo la mezza- notte, e fui sbigottita da una folla di contadini che mi si fece intorno, rovesciando un torrente di amare lamentele: «Un ex-bandito si è fatto strada nel Partito, e adesso spadroneggia nel nostro villaggio». «Stalin dice che l’adesione al collettivo è volontaria, ma adesso non vogliono ridarci i nostri buoi».

    Il mattino seguente, nel capoluogo del distretto, trovai un segretario affaticato, sommerso da proteste consimili che i contadini venivano a portargli ininterrottamente dall’alba fin dopo il tramonto. «Il presidente non c’è - ripeteva. - È andato a portare aiuti a un villaggio dove i kulak, la notte scorsa, hanno incendiato un granaio con dentro ventisette cavalli, coi quali si contava di effettuare le semine. Bisogna organizzare una soluzione di emergenza». Intanto, replicava stancamente ai contadini che senza dubbio i buoi sarebbero stati restituiti a coloro che desideravano lasciare le fattorie collettive, ma che nessuno poteva disorganizzare la semina portando via i buoi, con un sol giorno di preavviso, alle brigate occupate nell'aratura, magari a trenta chilometri di distanza, tanto meno se, più volte alla settimana continuavano a cambiare idea sul restare o andarsene.

    Sembrava che le fattorie dovessero andare a pezzi sotto la pressione di difficoltà che  venivano da tante fonti diverse: le violenze dei kulak, gli attacchi del clero, le stupidità burocratiche, e finalmente, la semplice, nuda inefficienza medioevale del paese russo. Tuttavia, non appena ebbi lasciata la linea ferroviaria e mi fui addentrata nelle campagne, lo spettacolo grandioso della seminagione in massa prese il posto del caos. Mi resi conto di come i giornalisti che giudicano dal posto di osservazione della linea ferroviaria e del centro distrettuale non possano fare a meno di sbagliare: le proteste e le ingiustizie fluivano alla linea ferroviaria, per cercare una soluzione al capoluogo, ma nessun contadino che era in grado di arare in pace andava alla ferrovia: stava arando. Oltre la ferrovia, gli uomini lottavano per ottenere un raccolto da primato, che avrebbe stabilito il loro diritto alla terra e alle macchine.

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 Qui c’era «la prima primavera bolscevica», come la chiamarono: la prima semina delle fattorie collettive. Cerano chilometri e chilometri di ricca terra nera in un solo appezzamento, un’unica rotazione era prevista per l’intera area. A regolari intervalli venivano le brigate: cavalli, buoi o trattori si movevano ritmicamente attraverso la zona, arando più rapidamente e più profondamente di quanto questa terra avesse mai visto. Di notte, la campagna era punteggiata di bivacchi, dai quali si levavano suoni di balalaika e canti di uomini e donne. Venivano cantanti d’opera da Mosca; e capeggiavano festose parate per i campi, che sostituivano le antiche processioni religiose. Un anziano professore di astronomia di Leningrado fece un giro per le campagne tenendo lezioni sulle stelle accompagnate da proiezione: per le brigate questa era la “cultura”, per i comunisti era “l’antireligione”. Brigate di meccanici vennero volontariamente dalle città per riparare gli attrezzi agricoli.

     Fu la semina più drammatica della storia umana. Milioni di contadini, mischiandosi coscientemente, per la prima volta, con la vita cittadina, con gli operai, i tecnici, gli artisti e i giornalisti, passarono sulle distese della campagna russa in una grande crociata, e costruirono in una sola primavera le basi agricole del socialismo.

 Di quella stagione di semina, tre figure rimangono specialmente impresse nella mia memoria: Ustina, bracciante, Melnikov, giornalista, e Kovalev, segretario del Partito in un villaggio.    Ustina aveva in cura i pollai in una grande fattoria collettiva chiamata “Fortezza del comunismo”. Era stata una serva dall’età di otto anni; dopo la rivoluzione si era unita a una piccola comune di villaggio, che lottava duramente per l’esistenza: ella stessa era tanto miserabile che i suoi bambini appena nati ebbero, per coperte, della carta di giornale. A poco a poco, i comunardi riuscirono a costruire un’azienda solida, con dei trattori e un’incubatrice: quest'ultima venne da Mosca come premio a Ustina per il suo ottimo lavoro. Dopo due anni di relativa prosperità, la sua comune fu di nuovo inve-

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stita dalla fame, perché un gran numero di braccianti affamati  privi di tutto, si erano rovesciati nel suo seno, e bisognava  da mangiare a tutti fino al raccolto. Qualcuno, amareggiato, sostenne che bisognava limitare l’accesso alla comune a quelli che portavano con sé tanto grano da potersi nutrire. Ustina si oppose fermamente: «Questa è la nostra seconda guerra - disse. - La prima è stata una guerra omicida. Qui non si ammazza nessuno, ma è una guerra lo stesso, e dunque dobbiamo aiutare tutti quelli che sono con noi».

   La lotta viaggiante era un giornale pubblicato da tre carri ferroviari, che percorsero la vasta regione di Stalingrado, con oasi nella città, durante tutta la primavera. Da distretto a di- stretto il giornale ambulante investigava e denunciava abusi, perfino chiamava giudici dalla città a presiedere corti improvvisate. Melnikov, il più combattivo e dinamico dei suoi redattori, era capace di digerire dieci casi amari e rivoltanti in un giorno, e ricavarne non scoraggiamento, ma stimolo a continuare la lotta. Fu lui a svelare la storia del bandito Zotev, che si era fatto eleggere dai suoi accoliti a presidente di un villaggio, e aveva tentato di far deportare come kulak un veterano dell’Armata Rossa che aveva denunciato le sue malversazioni. O quell’altra, dell’organizzatore zelante che era corso attraverso sette stanziamenti di tribù calmucche collettivizzandoli tutti in altrettanti giorni, col semplice metodo di fare una lista delle loro proprietà e di dir loro che, adesso, erano tutti una sola azienda. I calmucchi analfabeti, per i quali un pezzo di carta intestata dell’Amministrazione aveva il valore e l'autorità della magia, non osavano più neanche condurre al pascolo le loro pecore affamate, per paura di compiere un «furto di bestiame statale». Quando la dichiarazione di Stalin sulla “Vertigine del successo” giunse sino a loro, tutte le sette tribù si dileguarono nel deserto in una notte. Le vittorie del quotidiano lavoro di Melnikov erano tante denunce di atrocità ed errori da battere le invenzioni di tutti i fogli antisovietici d’America messi insieme. La lotta viaggiante fece arrestare in quella sola stagione più di duecento funzionari

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per reati che andavano dalla malversazione fino al banditismo. Ma quando chiesi a Melnikov se il raccolto sarebbe stato danneggiato da questa tempesta, egli mi guardò in faccia stupefatto come se fossi impazzita. «Danneggiato? Sarà molto più grande! Non avete visto i trattori raddoppiare la superficie seminata? Non avete visto i contadini, anche senza trattori, adoperare i cavalli dei kulak per aumentare del settanta per cento la superficie coltivata? I kula sabotavano il raccolto per il timore delle tasse e l’odio verso il potere sovietico. Ma i nuovi padroni contadini vanno avanti come tanti forsennati!››.

    La volontà di vita e il bisogno di orizzonti più larghi dei contadini poveri furono la grande forza liberata e messa in moto dalla «prima primavera bolscevica». Questa forza aveva una guida: i comunisti, che nonostante ‘inesperienza e gli eccessi, costituivano un gruppo ben disciplinato e instancabile. Nelle brigate di lavoro sui campi, si distinguevano a primo colpo i contadini comunisti per la concentrata preoccupazione che tutto andasse bene, tesa sui loro volti. È così che ricordo Kovalev, segretario del Partito di un piccolo distretto tartaro a sud di Stalingrado, e il suo colloquio con dieci contadini inefficienti, desolati, senza più coraggio.

    Questi contadini avevano deciso di abbandonare la fattoria collettiva. Uno di essi diceva: «Mi mandano a pascolare le bestie sotto la pioggia, e io non ho un mantello caldo››. Un altro: «Fanno lavorare il mio cammello fino a lasciarlo morire di fame sotto i miei occhi». Il terzo: «Mia moglie non vuole più stare con me da quando mi sono unito al colcos››.

    Queste ragioni sembravano buone a me, ma non a Kovalev. «Queste sono le condizioni in cui siete sempre vissuti - egli disse. - Nessuno vi ha promesso il paese di Bengodi nei colcos. Gli errori di direzione si possono correggere. Quelli che lavorano di notte devono ricevere dei vestiti caldi. Il fieno è scarso a causa della siccità dell’anno passato, ma non sarebbe di più nei campi individuali. Chi se ne va non va a star meglio: perché tutto il potere sovietico aiuterà i colcos. Un contadino non e una persona isolata: la sua fattoria dipende dalla nazione, e la nazione di-

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pende dalla sua fattoria. E poi, il nostro paese e circondato dagli Stati capitalisti: dobbiamo edificare rapidamente un’industria e un’agricoltura moderna, o perire. La grande fabbrica che avete visto a Stalingrado ci darà i trattori questa estate. in autunno, la grande centrale elettrica di Stalgres manderà la corrente fino alle vostre case. Ma intanto, finché queste imprese non sono finite, quelli che ci lavorano hanno bisogno di pane: bisogna che ci sia un grande aumento nel raccolto del grano. É possibile questo, se ogni singolo contadino se ne sta a casa sua, a decidere se gli conviene arare o no? Il compito di ogni cittadino sovietico in quest' anno è quello di rafforzare le fattorie collettive».

   Dopo due ore di discussione, le mogli degli uomini chiamarono i loro mariti dal di fuori. Kovalev le invitò a entrare, ma esse ritiutarono. Avevano deciso, e i loro uomini obbedirono. Senza sciupare parole in recriminazioni, Kovalev si rivolse a cinque comunisti, che erano rimasti nella stanza, tra cui il maestro del villaggio e il bibliotecario. Li assegno sul momento ai posti di lavoro nelle brigate che lavoravano con gli erpici: ma il loro compito principale era quello di sostenere il morale del collettivo. Poi chiese per telefono a Stalingrado una fornitura straordinaria di fieno, e anche che mandassero una organizzatrice tartara per il lavoro di agitazione fra le donne. Disse al bibliotecario di mandare librerie ambulanti fra le brigate sparse per la campagna. La sua azione rivelava una grande abilità di direzione, degna anche di battaglie più ampie.

   Tutto questo avveniva in un piccolo villaggio sui campi magri della terra tartara. In ogni villaggio come quello giungevano gli organizzatori del Partito, a lottare per il grano sovietico di quella primavera.

   Ma Melnikov aveva visto giusto: sebbene il seme fosse stato seminato nel caos della guerra di classe, da uomini che tempestosamente si aprivano la strada liberandosi dal medioevo in un anno, tale fu la spinta della loro volontà ridestata che quando alla fine il raccolto giunse, l’Unione Sovietica (e con lei le potenze straniere che stavano a guardare come falchi) seppe che il paese aveva ottenuto la più vasta area seminata e il più grande raccolto che si fosse mai visto. Quel raccolto cambiò la storia dell’agricoltura nel mondo. 

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    Un raccolto solo non era abbastanza per stabilizzare la collettivizzazione. Nel 1930, esso venne realizzato da masse di contadini scarsamente organizzati e male equipaggiati, mosse dalla grande forza del desiderio. Nei due anni successivi, le difficoltà organizzative fecero sentire il loro peso. Come trovare dei buoni direttori per i colcos, contabili per l‘amministrazione, specialisti per maneggiare le macchine? Il raccolto del 1931 fu ridotto gravemente dalla siccità in cinque zone cerealicole fondamentali. Nel 1932, le spighe sui campi erano migliori ma le difficoltà di raccolta furono più gravi. I presidenti dei colcos, riluttanti ad ammettere il loro fallimento, dichiaravano che sarebbero riusciti senz'altro a mettere il grano nei granai in tempo. Quando a Mosca ci si rese conto della vera situazione, una buona porzione del grano era già stata coperta dalla neve.

     Le cause del disastro furono diverse: quattordici milioni di piccoli poderi erano stati riuniti in 200.000 grandi fattorie, ma non c’erano i dirigenti sperimentati di cui queste avevano bisogno e le macchine erano insufficienti. Undici milioni di lavoratori avevano lasciato le campagne per le nuove fabbriche. L’arretratezza dei contadini, il sabotaggio dei kulak, le stupidità burocratiche dei funzionari, tutto giocò la sua parte. Nel gennaio 1933 era ormai chiaro che il paese andava incontro a un periodo di serie ristrettezze alimentari, due anni dopo la “vittoria del grano”.

     Di fronte alla sessione plenaria del Comitato centrale Stalin riconobbe la responsabilità del Partito. Il Partito si era fatto cogliere di sorpresa, e aveva reagito troppo tardi. Quando finalmente furono prese le misure di emergenza, esse furono rapide e sensate. Per far fronte ai bisogni immediati, si fecero pressioni senza riguardi di sorta sui contadini, perché consegnassero tutto il grano che dovevano allo Stato, sia in pagamento di tasse che per le macchine, e sia che essi ne avessero abbastanza per sé o no. «Gli operai che vi hanno onestamente dato i trattori devono adesso morir di fame per colpa della vostra ineff1cienza?››. Il grano, una volta in mano allo Stato,

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fu adoperato per rifornire il paese in regime di razionamento. Una piccola parte fu distribuita anche alle fattorie che avevano mancato al compito, sotto forma di razioni durante la semina per quelli che lavoravano. Da un capo all’altro del paese, senza eccezioni, ci fu scarsità e fame e un aumento generale della mortalità come conseguenza. Ma la fame fu distribuita: in nessun luogo si vide il caos e il panico che è richiamato alla mente dalla parola “carestia”. Sotto il regime di ferro del razionamento, applicato a tutta la nazione, venne il raccolto del 1933 e fu messo nei granai.

      Nel frattempo, furono presi tre provvedimenti per evitare altre catastrofi in futuro. Una nuova legge sugli ammassi del grano, un Congresso di lavoratori d’assalto delle campagne, e l’organizzazione di “sezioni politiche” - politodel - nelle Stazioni di macchine e trattori. Le consegne obbligatorie di grano, che prima erano più lievi per le fattorie più deboli, furono organizzate in modo da premiare i buoni raccolti e penalizzare l’inefficienza. Il Congresso dei lavoratori agricoli d’avanguardia riunì a Mosca i migliori “primatisti” di tutte le migliori fattorie, e diede risonanza in tutto il paese ai loro metodi, rimandandoli poi coperti d'onori alle loro case, da dove avrebbero guidato al successo interi distretti. E, mentre due terzi di tutte le fattorie collettive erano già servite dalle Stazioni di macchine e trattori, queste furono ora ampliare avviandovi ventimila lavoratori nuovi, uomini efficienti, di un tipo che la vecchia Russia rurale non aveva ancora conosciuto. Direttori di fabbrica, comandanti dell’esercito, professori universitari, si offersero come volontari per i politodel, a lavorare come organizzatori per aumentare l’ “efficienza” delle campagne.

   A tutto questo la stampa estera diede il nome di “la guerra di Stalin contro i contadini”. La stampa sovietica la chiamò “la nostra battaglia per il successo del raccolto”. Fu una battaglia: condotta in tutta la nazione insieme dalle campagne e dalle città. Mio marito, che lavorava a quel tempo per il Giornale dei contadini, passò quaranta giorni viaggiando in aereo da una fattoria all’altra del Caucaso settentrionale in un aeroplano a due posti, per incarico di una “brigata” di altri

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dieci giornalisti. Appena atterrato, prendeva campioni del volume del raccolto per metro quadrato, contava le spighe disperse, calcolava la perdita che esse rappresentavano per la fattoria, e prendeva nota dei mezzi che meglio avrebbero evitato lo sperpero del grano. Questi dati, comunicati per telegrafo dagli altri dieci redattori a tutta la stampa, venivano pubblicati ovunque per servire da guida al raccolto man mano che esso procedeva verso il nord. In quei quaranta giorni mio marito perse quindici chili di peso: tornò esausto e pieno di pidocchi. Ma calcolava che la sua brigata avesse evitato la perdita di forse trecentomila ettolitri di grano. Il suo lavoro non è che un esempio della battaglia generale e senza risparmio condotta in quell’anno.

    Nel corso di quell’estate, la conquista del pane fu realizzata: era una vittoria strappata dagli artigli di un grande disastro. Ma quella volta, il nuovo raccolto record non era il risultato di uno scoppio di entusiasmo semidisorganizzato, ma della crescente efficienza e dell’organizzazione sistematica. La vittoria fu consolidata l’anno successivo con la grande battaglia che le fattorie collettive sostennero contro l’ondata di siccità che aveva colpito tutta la metà meridionale dell’Europa. In passato, i contadini colpiti dalla siccità avrebbero mangiato le scorte vive, e poi si sarebbero rovesciati nelle città in cerca di lavoro. Nel 1934, i contadini colcosiani tennero delle conferenze regionali, dichiararono la “guerra contro la siccità” e organizzarono le misure appropriate per ciascuna regione. Alcuni si servirono dei pompieri per trasportare acqua sui campi; altri costruirono degli stagni riparati da alberi. Sui declivi del Caucaso settentrionale i contadini scavarono migliaia di chilometri di canali di irrigazione, dicendo «Noi, abbiamo le montagne: non abbiamo bisogno della pioggia». In tutte le zone dove il grano invernale non venne a maturazione furono inviati degli scienziati per determinare quale seconda coltura fosse più appropriata per quell'anno: poi, veniva fatta pubblicità ai loro consigli, e il Governo mandava immediatamente sul posto le sementi con trasporti a grande

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velocità. La cooperazione su scala nazionale vinse la siccità del i934, e riuscì a ottenere un raccolto complessivo per tutta l’U.R.S.S. non inferiore al record assoluto del 1933. Anche nelle regioni più colpite, le fattorie se la cavarono con cibo sufficiente per gli uomini e per gli animali, e con un’organizzazione rafforzata dalla prova.

    Nel 1935 la nuova agricoltura si era stabilizzata. Per quasi due anni nessuno aveva espresso la volontà di lasciare le fattorie collettive. Lo statuto modello per una fattoria, e il prototipo del “piano di fattoria” erano stati definiti: le rotazioni e le dislocazioni dei campi erano state stabilite. Per tre anni il raccolto granario era stato da quindici a venti milioni di tonnellate superiore ai livelli precedenti; l’area della barbabietola da zucchero era raddoppiata. L’area del cotone aveva raggiunto una estensione due volte e mezzo superiore a tutti i massimi raggiunti in passato. V’era stata una grave perdita nel campo delle scorte vive perché tanto bestiame era stato ucciso e mangiato nel primo anno della collettivizzazione. (In Cina adesso le ccoperative agricole, imparando dagli errori delle esperienze russe, comprano gli animali dai contadini sul piano di rateazioni di pagamenti).

     Più importante ancora dei vantaggi economici fu il mutamento del contadino. Gli agricoltori non solo impararono a leggere e a scrivere, ma si cimentarono anche nella scienza e nelle arti. 7.000 laboratori di campagna dove gli agricoltori studiavano i loro raccolti., scambiando i loro dati con quelli delle stazioni sperimentali del Governo, furono installati in due anni nella sola Ucraina. Quasi ogni fattoria ebbe la sua filodrammatica, il suo club di volo a vela, di paracadutismo e persino i suoi corsi di aeronautica. Gli agricoltori entravano in contatto con la vita della nazione e la nazione si legava con gli agricoltori. Un agronomo sovietico mi disse: «Noi scienziati eravamo soliti considerarci trascurati, ma adesso che le fattorie collettive ricercano la nostra scienza, noi misuriamo il nostro lavoro a millenni».

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   Durante la seconda guerra mondiale, quando un carro armato tedesco veniva catturato, o un aereo tedesco era costretto all’atterraggio nelle campagne, i gruppi di partigiani locali erano in grado di manovrare i carri o di condurre gli aerei nelle retrovie sovietiche. Life scrisse in un numero speciale del 29 marzo 1943: «Qualunque sia stato il costo della collettivizzazione agricola... queste grandi unità agricole... hanno reso possibile l’uso delle macchine... che hanno raddoppiato la produzione... (e) lasciato liberi milioni di lavoratori per l’industria. Senza di loro... la Russia non sarebbe stata in grado di costruire l’industria che produsse le munizioni e fermò le armate tedesche».

 

    Dopo la guerra, nel 1947, volavo attraverso l”U.R.S.S. e atterrai a Kazan, sul Volga. Cerano tante dozzine di piccoli velivoli sul limitare del campo, che pensai dovesse trattarsi di un campo di addestramento dell’aeronautica militare, e mi chiesi perché ci avessero lasciato atterrare. “Oh, no - disse un russo, - quelli sono gli aeroplani delle fattorie collettive. Sono venuti in città per sbrigare diverse faccende”.

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V
La grande follia
 

Nessuno, in nessuna parte del mondo, è in grado di disegnare la storia vera e completa degli eccessi che ebbero luogo nell'U.R.S.S. nel periodo 1936-38, né, credo, di valutarne giustamente le responsabilità. Un numero imprecisato di persone, certo molte decine di migliaia, furono arrestate di sorpresa, e inviate senza processo in campi di prigionia nel nord e nell’estremo oriente. Diverse migliaia furono i fucilati, di cui non fu più neppure comunicata la sorte ai loro amici. Dopo la morte di Stalin, L’U.R.S.S. cominciò una revisione di questi casi. Kruscev, nel suo famoso attacco a Stalin durante il XX Congresso, nel febbraio del 1956, riferì che 7.679 persone erano state “riabilitate” negli ultimi due anni, ma nella maggior parte di questi casi, gli interessati non erano più in vita. La rivelazione più drammatica fu quella che, dei 134 membri del Comitato centrale del partito, eletti nel 1934 a quello che fu detto allora il “Congresso della vittoria”, 98, il 70 per cento, erano stati arrestati e fucilati, per la
maggior parte nel 1937-38. ………………………………………………………………………………………….
     La stampa antisovietica trova una soluzione ben semplice: essa proclama che il socialismo è per sua natura “spietato e totalitario”. Ma tra coloro che conoscono lo spirito di iniziativa della gente sovietica negli anni recenti e la sua passione per ciò che essa chiama, comunque, la sua libertà, non v’è nessuno che accetti questa tesi. Kruscev, e altri, offrono una spiegazione quasi altrettanto semplicistica: Stalin e il “culto della personalità” portano la colpa. Che vi sia una responsabilità di Stalin è fuor di dubbio: ma dichiarare colpevole lui non basta a dare una risposta esauriente al problema. Stalin

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 agiva attraverso determinate strutture politiche: un'assemblea plenaria del Comitato centrale, nel febbraio 1937, discusse e approvò le misure fatali di tante conseguenze. D’altra parte, Kruscev stesso afferma che Stalin, in tutti questi atti, «pensava di prendere delle misure necessarie... nell’interesse delle masse lavoratrici, di difendere le conquiste della rivoluzione.>>……………………………………………………………………………………………………                                                                                    Verrà un giorno, io credo, che l’U.R.S.S., spingendo a fondo il processo di analisi di questi casi, e della storia, giungerà a un”obbiettiva valutazione di quel che avvenne. Per ora, tutto quel periodo mi sta di fronte come quello di una “grande follia”, e posso solo cercar di comprendere, attraverso segni indiretti, come si giunse ad essa.  

Il problema del “sovvertimento delle istituzioni”, da parte di agenti nemici o di cittadini malcontenti, si presenta a tutti i Governi, ed è raro che venga affrontato nella maniera più specchiata, attraverso il semplice e rigoroso corso della legge. Spesso - e lo vediamo bene nel nostro paese - esso diventa un motivo di caccia alle streghe e di terrore di tutti verso tutti. Queste deviazioni dall’equilibrio politico hanno la loro origine, senza dubbio, nel fatto che “i colpevoli” non sono criminali ordinari, facili da classificare in un sistema di sanzioni legali proporzionate all’offesa, ma sono semplicemente uomini la cui lealtà si organizza in direzioni diverse da quelle richieste dallo Stato. Poiché questi uomini sono una piccola minoranza, essi non rappresentano un problema grave per un regime stabile e fiducioso in se stesso: ma in tempi di guerra, o quando il regime è sottoposto a pressioni straordinarie, essi costituiscono una fonte di difficoltà ben maggiore che non i criminali ordinari.

 Verso la fine degli anni ‘30, l'intera Europa era agitata da queste difficoltà. Nella guerra di Spagna nacque il termine “quinta colonna” applicato per la prima volta ai seguaci clandestini di Franco che, dall’interno della città assalita, aiutatono i fascisti a prendere Madrid. Più tardi la “quinta colonna” di Hitler riuscì a penetrare così largamente in diversi Stati europei, che essi caddero come castelli di carta al primo tocco della bufera. Ma, nel senso più largo, questa quinta colonna

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comprendeva anche uomini come il premier Chamberlain e il presidente Daladier, che indebolirono la difesa delle loro nazioni facendo distruggere la democrazia in Spagna, e più tardi, consegnando le fortezze ceche a Hitler, nella speranza di lusingare le sue armate verso oriente; o come gli industriali americani le cui forniture di ferro ai giapponesi permisero loro di rafforzarsi contro gli Stati Uniti. Nessuno di tutti costoro si sarebbe considerato un traditore: e neppure, probabilmente, si credevano traditori Quisling, Laval e gli altri che, avanzando le più diverse scuse, presero parte ai governi-fantoccio al servizio dell’invasore. Dal punto di vista del nazionalismo ottocentesco essi erano dei traditori dei loro paesi; dal punto di vista dei progressisti del nostro secolo, dei traditori del- l’umanità. Ma se Hitler avesse vinto, il loro giudizio sarebbe diverso: sono i vincitori che scrivono la storia.

      Tenendo presente tutto questo, consideriamo la Russia. Nei primi anni della sua esistenza l’U.R.S.S. fu invasa da molteplici armate straniere, invitate da ex capi politici russi, e respinte solo a prezzo di guerre dure e sanguinose. Dopo la loro sconfitta, dal mondo del capitalismo continuarono a venire pressioni e minacce di ogni genere, che cercavano di servirsi, all’interno, di qualunque gruppo di scontenti. I primi due anni del piano quinquennale videro un'epidemia di sabotaggio da parte di quadri tecnici più elevati, molti dei quali avevano rap- porti precisi coi vecchi proprietari delle industrie nazionalizzate. Cerchiamo di vedere più da vicino questo sabotaggio: chiunque, tra gli americani che lavorarono in quegli anni nell’industria sovietica, può ricordarne degli esempi. Nella sua forma più semplice, il sabotaggio era poco di più del “solito” sistema degli intoppi burocratici. Al rappresentante di una ditta di Cincinnati che forniva macchine a fabbriche sovietiche fu comunicato che le macchine non andavano bene. Solo per recarsi da Mosca a Samara, sede della fabbrica dove le mac- chine “non funzionavano”, egli dovette lottare contro un’infinità di ostacoli frapposti da funzionari che si erano messi ad “applicare scrupolosamente” i regolamenti. Quando finalmente fu a

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Samara, dovette ricorrere alla polizia politica locale per riuscire a farsi mostrare l’interno della fabbrica: e qui trovò un sovrintendente terrorizzato che confessò come le macchine americane non erano neanche state provate, e giacevano ancora nei loro imballaggi. Il sovrintendente era stato pagato da un’impresa tedesca per dare un giudizio negativo delle macchine concorrenti, e si era accordato con un funzionario del centro, a Mosca, perché l’americano non fosse lasciato arrivare sino a Samara. L’uomo di Cincìnnati, nel raccontarmi questa storia, non si mostrava neanche scandalizzato, e rideva del “trucco” che aveva fatto fallire: ma per i russi, impegnati nell’edificazione di un’industria pubblica, a costo di gravi sacrifici, atti come questi erano dei crimini.

Il mio primo contatto diretto con gli intrighi degli agenti stranieri venne nel 1930, quando fui mandata a visitare la prima Stazione di macchine e trattori, vicino a Odessa. Per due volte, sul treno, dei funzionari della G.P.U. vennero a interrogarmi, e se ne andarono solo quando li ebbi convinti che ero una scrittrice americana. «Perché c’è tanta G.P.U. qui in giro? - chiesi al conduttore - Forse perché la linea corre lungo la frontiera romena?››.

 «È la vostra giacca di cuoio tedesca - fu la risposta: - Credevano che foste una dei tanti agenti che sono venuti a sobillare i Mennoniti››1. Più tardi, appresi dai contadini della zona che gli agenti tedeschi avevano avuto una gran parte nell'improvvisa decisione di larghi gruppi di contadini Mennoniti, di origine tedesca, di “abbandonare il paese dell'ateismo”. interi villaggi avevano venduto o abbandonato le case e il bestiame e si erano recate in massa a Mosca, a chiedere il passaporto per emigrare; e attraverso questa azione più di un raccolto di quelle terre, così prezioso in quegli anni, era stato disorganizzato.

Molti tecnici americani mi parlavano del sabotaggio che im- perversava nelle industrie dove essi lavoravano. Uno di essi, ispettore in una fabbrica di automobili, fu chiamato una volta da un investigatore della G.P.U. Il poliziotto gli mostrò alcuni pezzi di

 1 Setta riformata fondata da Simon Menno frisone (1492-1561) e diffusa specialmente in Olanda.

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metallo, e gli chiese se sapesse che cosa erano: «Certo sono pezzi di una mitragliatrice pesante». Col suo più grande stupore, gli fu rivelato allora che i pezzi venivano fabbricati proprio nel suo reparto, durante il turno di notte. In seguito, si trovò che i responsabili erano il capo reparto e un tecnico: gli altri operai non sa- pevano di contribuire, col loro lavoro, a equipaggiare l’arsenale segreto di una banda di traditori. Un altro americano, che aveva dovuto indagare sui disastri che si ripetevano nelle acciaierie, mi raccontava riferendo del suo lavoro di “pescatore di sabotatori”: «Io non colgo i sabotatori in persona. Ma quando apro la scatola degli ingranaggi di una macchina che va male, nascosta sotto una tavola d’acciaio che, per smuoverla, mi ha preso mezza giornata di lavoro con un verricello, e trovo gli ingranaggi inceppati da una mezza dozzina di secchi di fango e di trucioli d’acciaio, allora la faccio vedere al direttore della fabbrica e gli dico: «Questo non poteva succedere per caso. Il direttore è un brav’uomo, che non è capace di muoversi in un’acciaieria: ma allora gli si illuminano gli occhi. Lui sa chi deve andare a cercare››. Man mano che un maggior numero di specialisti russi s’impadronì della parte tecnica dell’industria, il sabotaggio diminuì, perché era più facilmente scoperto. D’altra parte, gli ingegneri furono conquistati al regime dal successo del piano quinquennale. Nel 1931, Stalin poteva annunciare che gli ingegneri, prima generalmente sospetti, «si volgevano dalla parte del potere sovietico», e dovevano ormai godere della cooperazione dei lavoratori. Così passò l’epidemia del sabotaggio”.

 Rimase però, più lontano dalla superficie e più grave, il sabotaggio ispirato da potenze straniere. Negli anni 1931-34 questi sabotatori, quando erano scoperti e processati, venivano trattati sempre meno severamente: l’economia era in progresso, e i pochi sabotatori, ormai, non facevano più tanta paura. I primi sabotatori, la maggior parte dei quali erano stati condannati a lavorare in qualche cantiere, esercitando il loro mestiere, sotto il controllo della G.P.U., ricomparvero impiegati in normali occupazioni, talvolta con l’Ordine di Lenin, di cui erano stati insigniti mentre erano ai lavori forzati.

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La G.P.U. giustificava ancora la sua esistenza scoprendo complotti, ma le sentenze di condanna diminuivano. I 52 ingegneri e tecnici del “caso Shakhta” accusati nel 1928 di sabotare le miniere di carbone, furono condannati a morte e 5 furono anche giustiziati. Un’accusa simile due anni dopo, nel “caso del partito dell’industria”, portò automaticamente alla condanna a morte, ma la pena fu commutata, «in considera- zione del pentimento››. Gli accusati riottennero subito dei buoni posti. I menscevichi accusati, nel 1951, di «incitare i cittadini alla rivolta in combutta con agenti stranieri», furono solo condannati alla prigione: si dichiarò che non erano più tanto pericolosi da dover essere giustiziati. La crescente indulgenza era dovuta al crescente senso di sicurezza del paese. La paura di un attacco da parte del Giappone era stata acuta nel 1931, ma diminuì quando i giapponesi giunsero sulla frontiera siberiana e non sconfinarono. Hitler, naturalmente, aveva dichiarato di rivendicare l’Ucraina sovietica, ma pochi, a quel tempo, si aspettavano che Hitler durasse. Litvinov stava concludendo con successo patti di non aggressione coi paesi confinanti: sembrava che l’U.R.S.S. potesse evitare la guerra sempre temuta. Quando dal primo piano quinquennale si passò al secondo, quella sensazione di sicurezza di cui parlavamo nell’altro capitolo aumentò. Particolarmente dopo il raccolto del 1935 il popolo sovietico sentiva di potere confidare nella sua forza crescente.

L’assassinio di Sergei Kirov, il 1° dicembre 1934, spezzò tutto questo sogno di sicurezza. Kirov, segretario del partito comunista di Leningrado, era il migliore amico di Stalin e il suo probabile successore. Fu assassinato da un comunista che era riuscito ad entrare nella sede del Partito esibendo la tessera. Tutto il paese fu scosso dal fatto che un comunista potesse odiare il gruppo dirigente tanto da ucciderne un membro. L’impressione fu tanto più profonda allorché i funzionari della G.P.U., incaricati di proteggere Kirov, si rivelarono implicati nel delitto, e quando le indagini scopersero che esistevano dei collegamenti con potenze straniere, cioé con la Germania. Le indagini continuarono ancora

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per un anno e mezzo, durante il quale la maggior parte della gente dimenticò Kirov. Poi  improvvisamente, fu annunciato che anche le più alte cariche del partito comunista erano implicate nel delitto. Il Procuratore dell’U.R.S.S. rinviò a giudizio il considdetto “gruppo di Leningrado”. Zinoviev, Kamenev e altri comparvero in Tribunale il 16 agosto 1936. Furono riconosciuti colpevoli e giustiziati. Altri processi di interesse nazionale o locale seguirono, culminando, l°1 1 luglio 1938, con il processo dinanzi alla Corte marziale di otto generali dell’Armata Rossa e la loro fucilazione sotto l’accusa di alto tradimento. Fu probabilmente la più sensazionale serie di processi di tradimento della storia.

I processi più importanti furono celebrati in una grande aula, cui ebbero accesso la stampa, sovietica e straniera, i membri del corpo diplomatico e una folla sempre nuova di rappresentanti delle fabbriche e degli uffici statali. Io presi posto nell’aula e assistetti al dipanarsi del dibattimento. Zinoviev e Kamenev, antichi amici di Lenin ed eminenti teorici, dissero ai giudici, al pubblico e al mondo che, avendo perso il potere a causa dell’ascesa di Stalin avevano cospirato per impadronirsene attraverso l’assassinio di parecchi dirigenti, compreso Stalin probabilmente, ad opera di agenti i quali, se scoperti, non avrebbero conosciuto l’identità dei capi del complotto, ma sarebbero apparsi come normali agenti della Gestapo tedesca. I capi del complotto, con la reputazione intatta, avrebbero allora fatto appello “all'unità del Partito” per fronteggiare la situazione d’emergenza. Uno di loro, Bakayev, designato ad assumere la carica di capo della G.P.U., avrebbe liquidato gli assassini, seppellendo così ogni prova contro i dirigenti. Questo fu il racconto al cui svolgimento io assistetti, seguendo il processo giorno per giorno. Gli imputati parlavano a voce alta e non mostravano segni di tortura. Kamenev disse che nel 1932 era divenuto ormai chiaro che la politica di Stalin era condivisa dal popolo e che egli non poteva più essere rovesciato con mezzi politici ma solo mediante il “terrore individuale”. «Eravamo guidati in questo - egli disse - da una sconfinata animosità contro il gruppo dirigente e dalla sete

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di quel potere cui un giorno eravamo stati vicini››. Zinoviev dichiarò in Tribunale di essersi ormai cossì abituato a dare ordini a un gran numero di persone da non essere in grado di sopportare una vita lontana dal comando. Gli agenti di rango minore testimoniarono sui legami del gruppo con la Gestapo. Uno di loro, N. Lurye, pretese di aver lavorato «agli ordini di Franz:_Weitz, luogotenente personale di Himmler». Alcuni pesci  piccoli apparenternente appresero per la prima volta in Tribunale la fine che i capi avevano loro riservato: e ciò accrebbe il veleno col quale li attaccarono.

     «Non lasciate che si proclami tanto innocente - gridò l'imputato Reingold, scagliandosi contro il coimputato Kamenev. - Egli si sarebbe fatto strada verso il potere scavalcando montagne di cadaveri». Era una storia credibile? La maggior parte della stampa, fuori dell'U.R.S.S., la definì una montatura. La maggior parte di coloro che sedettero nell’aula, compresi i corrispondenti esteri, la credettero vera. I’ambasciatore Davies dice, nel suo libro Missione a Mosca, che secondo la sua convinzione gli imputati erano colpevoli delle accuse loro rivolte. D. N. Pritt, eminente awocato e membro del Parlamento britannico, aveva una convinzione analoga. Edward C. Carter, segretario generale dell’lstituto per le Relazioni Pacifiche, scrisse: «Il caso del Cremlino è... terribilmente genuino. Ha un senso... convince». Lo stesso esteso atto di accusa di Kruscev contro gli eccessi di quel periodo non fa menzione dei processi pubblici, e non ne indica nessuno come una montatura.

A me, che ho ascoltato gli imputati, spesso solo da qualche metro di distanza, il processo attraverso il quale antichi dirigenti rivoluzionari avevano potuto diventare dei traditori, sembrò comprensibile. Essi cominciarono col dubitare della capacità del popolo russo di costruire il socialismo senza un aiuto dall'esterno. Di ciò si discuteva apertamente tra il 1924 e il 1927. I loro dubbi divennero più profondi dinanzi al contrasto fra l’inefficienza della Russia, che portò il paese alla carestia del 1932, e l’efficiente organizzazione tedesca che essi avevano conosciuto. Non era difficile, per loro, immaginarsi

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che la Russia potesse trarre profitto dalla disciplina tedesca, imposta col tallone di ferro. Un gran numero di persone irritate in quegli anni, facevano di queste osservazioni. Ci sarebbe stata, poi, una rivoluzione tedesca: essi stessi avrebbero potuto promuoverla dall’interno. Nel contempo, essi si sarebbero liberati dell’odiato Stalin.
     Una volta che si ammetta che questi primi processi furono genuini - ed esperti osservatori stranieri lo credettero -allora ha una situazione che può ben far dirottare una nazione dalle sue basi sane. Non solo i russi erano circondati da
Stati capitalistici ostili; il loro stesso gruppo dirigente rivoluzionario appariva profondamente inquinato da agenti, macchinazioni d’assassinio e complotti per rovesciare il Governo. Dopo la condanna di Kamenev e Zinoviev i processi si molti-
plicarono. Tomsky, ex presidente del Consiglio centrale dei sindacati, citato in aula da uno degli imputati, si confessò colpevole e si uccise per sfuggire all’arresto. Processi locali ebbero inizio nel Caucaso, nell'Asia centrale, nell’Estremo Oriente. Nella regione dell'Estremo Oriente, il capo della G.P.U. fuggi in Giappone, e molti dei suoi uomini furono arrestati come agenti giapponesi.
     Poi fu l”Armata a essere implicata. Il capo dei commissari politici, maresciallo Camarnik, si suicidò il 1° giugno 1937. L'l1 luglio il maresciallo Tukbacevsky, che solo poco tempo prima era stato vice commissario alla Difesa, fu giudicato da
una Corte marziale insieme con altri sette comandanti in capo: fu il primo processo tenuto a porte chiuse.
     Quello che fece trasalire più profondamente i cittadini sovietici fu probabilmente il fatto che i processi di tradimento sfociarono alla fine in quello di Yagoda, capo della G.P.U.

2 Io stessa udii una contadina del Caucaso urlare furibonda a un fun-
zionario: «Che vengano gli inglesi, che vengano i tedeschi, venga chi vuo-
le e metta ordine in questo dannato paese». La donna non fu arrestata: il
funzionario tentò semplicemente di calmarla. Le stesse parole, dette da
un”intellettuale di città, avrebbero potuto condurre al suo arresto.

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Quando questi fu giustiziato come traditore e molti funzionari della G.P.U. furono imprigionati sotta l’accusa di “avere arrestato cittadini innocenti” e “avere usato metodi illegali per estorcere le confessioni”, cominciò a diffondersi il dubbio sulla branca investigativa del Governo. Chi era colpevole, allora? Chi innocente? Il confine tra agenti nemici e organi di sicurezza piomba nel buio.
    Una sensazione di insicurezza si diffuse fra i sovietici, prendendo il posto di quella sensazione esultante di progresso che essi avevano avuto nel 1934. E ciò non era dovuto soltanto, e neanche soprattutto, alla paura personale dell’arresto o alla preoccupazione per i propri amici. Era dovuto alla coscienza del fatto che il nemico era penetrato assai in alto, nella cittadella del gruppo dirigente, e che nessuno sapeva chi fosse leale. Fu quella la prima volta in cui una nazione venne alle prese con la mortale efficienza della quinta colonna di
Hitler. I russi la sentirono come una battaglia per la salvezza, ma una battaglia combattuta nell’oscurità. Questa sorta di incubo, che caratterizzava la lotta, influenzò non solo la gente, ma anche, credo, Stalin. Egli creò la teoria secondo la quale più un paese si vvicina al socialismo più crescono i suoi nemici.
      Gli imputati dei processi pubblici furono ben lungi dall’essere le sole vittime. Quegli anni, e specialmente il 1937, vengono ricordati da tutti i cittadini sovietici come anni di grande angoscia, causata dai molti arresti misteriosi e dal sospetto che questi arresti diffondevano dappertutto. La gente veniva prelevata di notte, e non ricompariva mai più. Qualche volta, qualcuno tornava: Giorgio Andreicin fu esiliato due volte in Siberia, e tutte e due le volte tornò abbastanza presto, riprendendo a lavorare con un’occupazione migliore. La maggior parte degli arrestati non veniva giustiziata, ma mandata o in un campo di lavoro forzato, o al confino in luoghi lontani. Il terrore non nasceva tanto dalla conoscenza quanto dalla terribile ignoranza della sorte di conoscenti e amici. La mia amica più cara, che aveva vissuto insieme con me per parecchi anni prima di sposarsi e trasferirsi a Leningrado,
fu condannata a dieci anni di confino. Nove anni dopo, la

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incontrai di nuovo a Mosca e seppi quel che era accaduto. Suo marito era stato arrestato; ella non riuscì mai ad apprendere particolari dell’accusa che gli era stata mossa. Convinta della sua innocenza, importunò i funzionari della G.P.U. e fu arrestata lei stessa, con l’accusa di “essere la moglie di un nemico del popolo”. Fu inviata non in un campo di concentramento, ma in una piccola città del Kazakstan, dove trovò lavoro come insegnante nella scuola media. Una volta al mese doveva presentarsi al locale funzionario della G.P.U., un uomo intelligente col quale essa ebbe “molte discussioni interessanti”. Parecchie volte egli le chiese il suo punto di vista sul suo arresto e sui molti altri di cui ella aveva saputo.

«Il modo in cui io vedo la questione è questo - ella rispose una volta: - la quinta colonna nazista è penetrata nella G.P.U., conquistando posizioni elevate, e arresta le persone sbagliate». Il suo interlocutore rispose: «Molti la pensano così...››. Non disse chi fossero questi molti, né se egli stesso fosse uno di loro.

 Una spiegazione di questo genere potrebbe rendere conto, almeno in parte, della più drammatica tra le rivelazioni di Kruscev, secondo cui ben 1108 dei 1934 delegati al Congresso del Partito del 1934 furono arrestati, e delle 154 persone elette da quel Congresso al Comitato centrale, 98 - il 70 per cento del totale - furono arrestate e fucilate. Coloro che attribuiscono tutto ciò alla follia paranoica di Stalin dovrebbero ancora spiegare come mai un capo, anche paranoico, avrebbe voluto eliminare proprio i più abili e fedeli trai suoi compagni.

     I delegati al “Congresso della vittoria” nel 1934 erano precisamente coloro che avevano sostenuto coerentemente la linea staliniana, e celebravano ora il trionfo del socialismo così nell’industria come nelle campagne. La drastica eliminazione proprio di costoro, nel breve spazio di tre anni, appare come qualcosa di meno assurdo se la si interpreta come un tentati- vo riuscito della quinta colonna hitleriana di eliminare i pa- trioti più eminenti e abili della nazione nemica. Alcuni casi, e tra questi quelli di cui ebbi diretta esperienza, sembrano confermare l’ipotesi che assai spesso erano proprio “le
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 persone sbagliate” a venire arrestate, individui che sembravano scelti apposta per disorganizzare, eliminandoli, la vita del paese. Tra il personale del nostro giornale, il Moscow News, si verificarono improvvisamente tre arresti. Se mi si fosse chiesto di indicare i nostri tre collaboratori più energici ed efficienti, avrei indicato senz’altro proprio quei tre: erano membri del Partito, lavoravano duro sempre, sia al giornale che nel sindacato, erano sempre disposti a fare una nottata di lavoro in più per superare un momento di emergenza. Eppure, il personale del giornale avrebbe dovuto recarsi a una riunione sindacale a “ringraziare il Governo per la rimozione dei sabotatori”. Mi rifiutai di andare; e invece, protestai col nostro direttore capo. Egli ammise che ci potevano essere vittime innocenti: «Lasciate che cerchino di agire attraverso i loro rappresentanti. I deputati del Soviet Supremo sono occupati a seguire montagne di ricorsi. Quelli che sono consapevoli della loro innocenza e lottano perché venga riconosciuta, torneranno tra noi in seguito». Tutti i deputati, era vero, si occupavano dei ricorsi dei loro elettori: Kachalov, il famoso attore, deputato della mia circoscrizione, mi dichiarò personalmente che gli appelli e le proteste formavano la più gran parte del suo lavoro in quell'anno. Ma non era vero che gli innocenti tornavano sempre. Molti, a migliaia, morirono in esilio. Consideriamo ora le rivelazioni di Kruscev su ciò che accadeva nelle istanze superiori di Partito, come appare dalla denuncia antistaliniana del 1956. Anche Kruscev fa risalire l’inizio degli eccessi “al criminale assassinio di Sergei N. Kirov”, cioè, a partire dal ‘35. «Fu precisamente in quest’epoca - disse Kruscev -- che ebbe origine la pratica della repressione di massa attraverso l’apparato governativo... dapprima contro i nemici... e poi contro molti onesti comunisti». Egli rivelò che subito dopo l’assassinio di Kirov, e per iniziativa di Stalin, furono date istruzioni agli organi giudiziari perché fossero stretti i tempi delle indagini, delle sentenze e delle condanne. In quell’epoca, Yagoda era a capo della G.P.U. Stalin lo trovò troppo lento, e, con un telegramma da Soci, il 25

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settembre del 136, chiese che al posto di commissario degli Affari interni fosse nominato Yezhov, perché Yagoda si era dimostrato incompetente. La nomina di Yezhov e il suo piano di azione furono approvati dalla sessione plenaria del Comitato centrale del febbraio 1937. Immediatamente, gli arresti si moltiplicarono: secondo la dichiarazione di Kruscev, gli arresti crebbero di dieci volte dal 1936 al ‘37; per estorcere le confessioni, continua Kruscev, fu impiegata la tortura: Stalin l’au- torizzò. Prima di allora, era stato motivo di orgoglio per i sovietici il fatto che le loro prigioni ignoravano non solo la tortura, impiegata dai nazisti, ma anche il terzo grado come è applicato negli Stati Uniti.

 Il 1937 segnò il culmine dell’ondata di repressione. Poi, improvvisamente, Yezhov scompare dalla scena: corse voce che fosse stato internato in manicomio. All’inizio del 1938 il Comitato centrale approvò una nuova risoluzione sulla difesa interna; la follia cominciò a retrocedere. Anche ai giorni di Stalin, si riconobbe che si era trattato di una follia: verso il 1945, ebbi a interrogare un funzionario della G.P.U. sulle possibilità di revisione di un caso deciso nel 1937. «Qualunque cosa accaduta nel 1937è: passibile di revisione» fu la risposta. Ma migliaia di casi non furono ripresi in esame che dopo la morte di Stalin.

      L’attribuzione delle responsabilità per le delittuose liquidazioni di innocenti del 1937, da parte di Kruscev, contiene diverse dichiarazioni interessanti. «É giusto accusare Yezhov per gli eccessi del 1937››, è un primo punto. Ma, aggiunse Kruscev, Yezhov fece anche delle liste di persone la cui condanna era determinata a priori senza che si attendesse il corso delle indagini, e queste liste furono sottoposte da lui all’approvazione di Stalin. Inoltre, è inverosimile che Yezhov potesse far condannare talune delle sue vittime più in vista senza il consenso di Stalin. «Stalin era un uomo molto diffidente, morbosamente sospettoso», dichiara Kruscev. É importante ricordare esattamente le parole con cui egli riassunse tutto quel che era accaduto: «Servendosi della formulazione di Stalin, che quanto più ci si avvicina al socialismo tanto più numerosi e aspri sareb-

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bero i nemici, e profittando della risoluzione della sessione plenaria del Comitato centrale del febbraio-marzo (1937). approvata sulla base del rapporto di Yezhovf,  i provocatori che si erano insinuati negli organi di sicurezza dello Stato, insieme coi carrieristi senza scrupoli, cominciarono a coprire il terrore di massa col nome del Partito››.
      Il quadro che se ne ricava, e chiaro, non è semplicemente quello del despota, Stalin che si libera dei suoi nemici. Al contrario, si tratta di un quadro complesso, nel quale entrano e si combinano le azioni di diversi gruppi di forze. La colpa di Stalin consistette nel fatto che, mosso dalle sue tendenze “diffidenti e morbosamente sospettose” (uno stato d’animo non del tutto innaturale in un uomo il cui più caro amico era stato assassinato e che si era sentito dire, in un pubblico processo, che anche il suo assassinio era nei piani), egli diede l’incarico a Yezhov, ordinò la sommaria accelerazione delle procedure d’indagine e delle sentenze, e architettò la teoria della moltiplicazione dei nemici del socialismo con l'avvicinarsi di questo al suo trionfo. Yezhov, scoperto più tardi come un malato di mente, dava le direttive d’azione. Il Comitato centrale, convinto dalle argomentazioni di Stalin e dai rapporti di Yezhov, approvò anch’esso quel che si stava compiendo. Coloro che misero in moto il meccanismo, secondo le parole di Kruscev, erano “provocatori” - cioè, agenti nazisti- e “carrieristi senza scrupoli” - vale a dire, uomini che inventavano complotti per dare maggior peso alle loro funzioni, e salire con esse. L”analisi di Kruscev, nel complesso, non differisce dunque molto da quella della mia amica confinata, secondo cui la quinta colonna dei nazisti “era penetrata molto in alto nella G.P.U. e ar- restava le persone sbagliate”. Io ho chiamato le azioni di questo periodo “la grande follia” perché queste azioni avevano qualcosa di insano, ad esse concorrevano molte persone, e ancora non se ne è capito completamente il senso. lo credo che gli investigatori sovietici, che stanno riesaminando tutti questi casi, riusciranno col tempo, a venirne a capo: molto probabilmente, allora, la chiave sarà trovata in una estesa ed efficace penetrazione della
quinta colonna nazista nella G.P.U., in molti reali complotti, e nell’ef-

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fetto di tutto ciò su un uomo estremamente sospettoso che vide complottare il suo stesso assassinio e credette di salvare la rivoluzione con una drastica epurazione.     
    Sarebbe ingenuo credere che gli anni intorno al 1937 siano i soli nei quali avvennero arresti ed esecuzioni ingiuste nell’U.R.S.S., durante l’era di Stalin. Arresti ed esecuzioni ingiuste si verificarono, in minor numero, dall’inizio della rivoluzione fino agli ultimi giorni di Stalin, quando alcuni medici furono accusati di cospirare contro la salute dei dirigenti sovietici, confessarono - presumibilmente sotto la tortura - e risultarono più tardi innocenti. Il potere arbitrario della polizia fu il più grande male dell’era di Stalin. Esso non fu una sua invenzione; lo ritroviamo assai lontano, nei Centoneri3 dell’epoca zarista, e anche il “terrore rivoluzionario”, sotto Lenin, gli diede nutrimento. Allora, tutti i buoni comunisti ammettevano la necessità di una forza speciale, extralegale, per proteggere la rivoluzione: il “terrore” ha accompagnato anche altre rivoluzioni, fra cui la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese. Però, e più facile creare una polizia politica che abolirla: essa mette in scacco i dissenzienti, e coloro che stanno ai posti di co- mando finiscono col trovarla utile. Così nel 1922, quando la polizia politica era già destinata a perdere il suo rango e a passare alle dipendenze delle autorità locali, Stalin decise di centralizzarla, facendone un potente strumento di controllo. Tre volte, durante gli anni che passai nell’U.R.S.S., ci si accinse a limitare i poteri della polizia e a sottoporre gli organi di sicurezza al controllo della legge: ogni volta, il nome dell’organizzazione cambiò, ma i suoi poteri rimasero. Una simile polizia finisce per risultare uno Stato nello Stato, con un interesse specifico nella scoperta dei “complotti”, alcuni dei quali esistono realmente. Essa presenta anche un altro pericolo: la sua organizzazione, proprio per il fatto che l’appartenenza ad essa è tenuta segreta, è la prima ad essere penetrata dai provocatori nemici.

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Squadre d’azione di estrema destra, la cui costituzione fu promossa dai circoli zaristi per organizzare i pogrom e reprimere violentemente ogni moto democratico.

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La polizia politica era necessaria? I cittadini sovietici, apparentemente, pensavano di sì. Perfino mio marito, alla notizia del confino inflitto alla mia migliore amica, osservò soltanto: «Peccato che dovesse trovarsi legata proprio a quel marito».
    Altri miei amici russi erano di un’opinione ancor più dura e spregiudicata. Mi ricordo di aver sentito sostenere da uno di essi che, se la polizia politica avesse fermato cento sospetti, sapendo con certezza che uno di loro era un traditore pericoloso, ma senza poter determinare quale egli fosse, avrebbe dovuto fucilarli tutti, e i 99 innocenti avrebbero dovuto essere pronti a morire per impedire la salvezza del traditore. Quan- do andai a protestare per l’arresto dei nostri tre colleghi al giornale, la risposta completa del mio direttore capo rappresentò un’esposizione molto più larga e comprensiva delle ragioni per cui i cittadini sovietici accettano senza protestare.   
      «Perché non vi rendete conto del quadro fondamentale delle cose? I nostri maggiori economisti prevedono che la grande tempesta mondiale scoppierà verso il 1939. Si vvicina la più grande lotta che l’umanità abbia mai conosciuto ed essa dovrà decidere se il mondo piomberà in un’era oscura di schiavitù e di guerra o se l'umanità supererà la stretta, e avanzerà verso un mondo migliore».
       “Dov’è in questa lotta, il fondamento sicuro? Ebbene, noi bolscevichi pensiamo che, nonostante la nostra arretratezza tecnica, potrà toccare all’Unione Sovietica di salvare la civiltà per tutto il mondo. Le forze distruttive dell’uomo crescono rapidamente, metà del mondo capitalistico è già ricaduto nel medioevo. La storia ha già visto delle civiltà intere crollare e scomparire. Il nostro dovere di fronte all’imminente crisi mondiale è questo: dobbiamo arrivare ad essa il più forti possibile, con tanto grano quanto è possibile, tanti uomini abili quanto è possibile, e il minor numero possibile di sabotatori. Questo è quello che stiamo facendo: con due piani quinquennali completati, abbiamo la possibilità di farlo. Quelli che dubitano o interferiscono sono traditori, non solo del nostro paese sovietico, ma dell’umanità». 126

Erano parole forti, e mi ridussero al silenzio. Colui che pronunciò queste parole si chiamava Michail M. Borodin. Fu arrestato nel 1949, pressappoco nell’epoca in cui fui arrestata anch’io, e morì in un campo di concentramento nell’Estremo Oriente. Quali sono, in qualunque parte del mondo, le salvaguardie contro le ingiustizie? Ci sono i diritti, duramente conquistati, delle nazioni occidentali - “procedimento legale”, “ha- beas corpus”, “processo di fronte a una giuria”; diritti dispendiosi, di cui non è facile approfittare per i poveri e che la Russia non ha mai conosciuto. Una serie anche più ampia di diritti fu garantita dalla Costituzione staliniana del 1936, e violata nello stesso anno dal maggiore autore di quella Costituzione, che pure, come ha dichiarato anche il suo massimo detrattore, pensava di agire per salvare la rivoluzione. La conclusione, mi sembra, non può essere altra da quella che i russi medesimi hanno tratto: che nessun uomo deve essere deificato come Stalin lo fu. È vero che le sue azioni furono compiute “attraverso le debite strutture”, che perfino la grande follia del 1937 fu approvata da una risoluzione del Comitato centrale. Ma questa approvazione venne senza il controllo probante di una coraggiosa opposizione: così, tutti coloro che approvarono in questo modo portano la responsabilità insieme con Stalin. In nessuna parte del mondo la giustizia è sicura o perfetta: ma prezzo della libertà e della giustizia è un”eterna vigilanza, non solo in regime capitalista, ma ancor più nel socialismo. Il valore della denuncia di Kruscev non sta solo nel fatto che, dopo di essa, fu spezzato il potere della polizia politica, ma nell’orrore che essa destò nel popolo sovietico: questo attivo orrore di un popolo informato e politicamente educato contro l'ingiustizia è la sola salvaguardia sicura. Durante il periodo della “grande follia” il popolo sovietico apprese un certo tipo di vigilanza. Era qualcosa che i russi ancora non conoscevano. Appelli alla “vigilanza popolare” contro le spie e i sabotatori riempirono la stampa. «Non parlate sui tram della vostra fabbrica: potreste fornire informazioni che aiutereb-

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bero il nemico a individuare l’ubicazione delle nostre industrie e a valutarne la portata». La gente divenne circospetta; i russi felici e loquaci divennero taciturni con gli stranieri. Ricordo l’articolo che scrissi per una rivista americana su La mia figlia sovietica, descrivendo l’attaccamento della mia figliastra per la fabbrica chi- mica dove lavorava. Mio marito mi chiese di cambiare e di parlare di una centrale elettrica, per non rivelare l’esistenza di una fabbrica chimica ad un’ora di viaggio dalla nostra casa.
     Due altri casi che mi occorsero personalmente dimostrano come questo periodo influì sulla mentalità della gente. Alla vigilia di una manifestazione del 1° maggio, appresi che parecchi turisti americani erano in subbuglio, perché erano venuti a Mosca per la sfilata e non c’erano più posti nelle tribune della Piazza Rossa. Suggerii all’Intourist di farli sfilare col personale del Moscow News: in questo modo avrebbero potuto vedere la piazza sfilando. Il rappresentante dell’Intourist rispose: «Ve ne saremmo grati, ma li conoscete abbastanza bene da garantire che non hanno pistole o bombe?>› Questo decise la cosa: sapevo, come tutti i giornalisti, quanto la persona di Stalin fosse esposta durante queste manifestazioni. Ci era stato detto che agenti dei paesi dell’Europa orientale venivano spesso nell’Unione Sovietica come “turisti americani”. Rifiutai di garantire per tutti i miei compatrioti ad occhi chiusi.
     Trascorsi quell’estate sulle rive della Moscova, vicino al piccolo sobborgo di Fili. Sapevo che in quei paraggi c’era un grande stabilimento industriale: avevo visto i lavoratori di Fili sfilare a migliaia nelle parate. Molti anni dopo, a New York, dopo lo scoppio della guerra fra la Germania e la Russia, lessi in un giornale che i famosi bombardieri a sei motori, che rivaleggiavano con le fortezze volanti, e per certi versi le sorpassavano, venivano fabbricati nello stabilimento di Fili. Se ciò era vero, so quanto ogni lavoratore di Fili deve aver desiderato di vantarsene con me, americana. Ma nessuno lo fece mai. Una tale abitudine al silenzio non è naturale per i russi, né piacevole per i loro amici. Ma può aver costituito una salvezza in quegli anni.

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Quando la seconda guerra mondiale giunse alle fine in U.R.S.S., il resto del mondo notò la relativa assenza della “quinta colonna” di Hitler, che aveva rovesciato la maggior parte dei governi europei. Howard K. Smith commentò: «Se la Russia non avesse liquidato qualche migliaio di burocrati e di ufficiali è quasi certo che l’Armata Rossa sarebbe crollata in due mesi››4. Altri diede questo giudizio; io non lo condivido pienamente, ma so che il popolo sovietico sopportò quegli anni di follia nella convinzione di preparare una difesa disperata, di essere già alle prese con un nemico che si muoveva nell’ombra, e che ogni volta che si eliminava un traditore ciò poteva significare la salvezza futura di migliaia di vite, o addirittura del destino del paese. Questo senso di combattere nell’oscurità, contro un nemico che era penetrato fin tra i capi, diede a quegli anni il loro carattere di incubo.

 4 T/ae Last Y}az'nfi'om Berlin, p. 325.

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VI

La lotta per la pace è perduta

 

 

 All'inizio del '55, durante la breve sensazione provocata dal ritiro delle accuse contro di me da parte di Mosca, fui intervistata più volte dalla televisione americana. Quasi ognuno dei miei intervistatori mi chiese se pensavo che i sovietici e i loro capi volessero davvero la pace: essi percepivano chiaramente quanto questo problema fosse vivo e presente nelle preoccupazioni degli uditori, e anche i dubbi che vi erano su di esso.
    La mia risposta era una sola: «Essi desiderano la pace con un’intensità di cui nessun americano potrebbe farsi un’idea. Non c’è un capo sovietico che potrebbe restare al suo posto se il popolo non fosse convinto che lavora per la pace. Qui, in America, la guerra accrebbe la prosperità; le famiglie che hanno perso dei figli sono poche. Nell’U.R.S.S., ogni casa ha sofferto duramente. Tutti patirono la fame, molti persero il tetto, e ogni famiglia che conosco fu colpita in uno o più dei suoi membri. Venticinque milioni di persone rimasero senza tetto. Non c’è nessuno, nell’U.R.S.S., che non porti oggi il peso della ricostruzione di ciò che la guerra ha distrutto››.
 
  È sorprendente quanto gli americani siano all’oscuro della  profonda volontà, del bisogno di pace dei popoli sovietici. Esso cominciò ad esprimersi subito con la Rivoluzione d’ottobre, che essa stessa è un prodotto dell’esaurimento bellico, e nei suoi slogans «Pace, terra e pane››. Il primo atto ufficiale del governo rivoluzionario fu l’offerta «a tutte le nazioni belligeranti e ai loro governi... di una pace giusta e democratica, senza annessioni e senza indennità». Più tardi, questa espres-

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sione divenne famosa sulla bocca del presidente Woodrow Wilson, che tuttavia l’aveva presa a prestito dai bolscevichi.
    Né Wilson, né gli alleati anglo-americani, né i tedeschi diedero pace, in quegli anni, alla giovane Repubblica sovietica. Gli Alleati attaccarono altamente i bolscevichi per il solo fatto della loro proposta, e pretesero che la Russia continuasse a combattere. Continuare la lotta era impossibile, e Lenin fu costretto a concludere una pace separata con i tedeschi, una pace predatoria, come egli stesso la chiamò: con Brest Litovsk, la Germania occupava l’Ucraina e i paesi baltici. Dopo la sconfitta tedesca, sia gli Alleati vittoriosi che la Germania attaccarono la Russia per altri due anni.
    Il bisogno di pace dei russi in quegli anni era così disperato, che Stalin, a un certo punto, era pronto persino ad accettare uno smembramento della Russia, pur di ottenere la pace. Nel marzo 1919, William Christian Bullitt andò a Mosca, come inviato semi-ufficiale del presidente Wilson, proponendo che il territorio russo fosse diviso fra tutti i vari Governi locali che se lo spartivano in quel momento. Ciò avrebbe significato un governo fantoccio dei giapponesi in Estremo Oriente, e delle dipendenze anglo-francesi in Ucraina, nel Caucaso, nell’Asia centrale e nei porti artici. Lenin si dispose ad accettare perfino questa incredibile resa, perché il popolo russo stava morendo di fame, pestilenza e guerra. Ma i diversi regimi-fantoccio non accettarono, e, a Versailles, le potenze rifiutarono di trattare la pace con i bolscevichi, determinate a distruggerli fino all’ultimo.
   La pace non fu conquistata dagli appelli pacifici né dalle offerte di territorio, ma dal coraggio e dal sacrificio del popolo russo. Alla pace vera e propria, del resto, si giunse solo lentamente: prima si ottenne la cessazione del fuoco, seguita da accordi commerciali; finalmente, dopo molti anni, venne anche il riconoscimento diplomatico. Le ultime invasioni armate furono quella polacca del 1920, con l'aiuto dei francesi, e quella dei  finlandesi sotto il barone Mannerheim, che godé dell’appoggio sia degli Alleati che dei tedeschi. I giapponesi non furono scacciati da Vladivostok che nel 1922. Gli Stati Uniti riconobbero la Repubblica sovietica solo nel 1933, sotto il presidente Roosevelt.

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    La prima apparizione del nuovo Stato in un consesso internazionale si ebbe alla Conferenza di Genova, nel 1922. Gli Alleati, che intendevano gettare i pesi economici del dopoguerra sulla Germania e sulla Russia, citarono le due vittime al tavolo delle trattative. La prima cosa che i sovietici proposero fu una limitazione generale degli armamenti. «Tutti gli sforzi diretti a ricostruire l’economia mondiale saranno soffocati finché la minaccia di nuove -guerre continuerà a gravare sull’Europa e sul mondo›› disse Giorgi Cicerin, capo della delegazione sovietica. Le sue parole non trovarono eco; allora Cicerin firmo il famoso accordo di Rapallo con la Germania, mediante il quale i due reietti della conferenza stabilivano nuove relazioni amichevoli fra di loro, «sulla base dell’uguaglianza››, e cancellando reciprocamente i loro debiti. L’accordo di Rapallo - semplice, dignitoso ed efficace- rappresentò la prima mossa da parte di un’altra nazione per aiutare la Germania a rimettersi in piedi. Forse, se altri ne avessero seguito l’esempio, in quell’epoca in cui la Germania faceva degli sforzi per raggiungere un ordine democratico, Hitler non sarebbe mai giunto al potere.
    Così, fin dall’inizio, la diplomazia sovietica entrò nell’arena mondiale con queste due linee di azione politica: pace, attraverso la limitazione degli armamenti, e relazioni fra uguali, offerte alle nazioni in difficoltà. Ciò corrispondeva tanto al- l’ideologia sovietica quanto alle precise necessità dell’U.R.S.S. La pace - ossia la possibilità di ricostruire - era il suo massimo desiderio: e di conseguenza, i naturali. alleati dell’Unione Sovietica andavano trovati tra le nazioni vinte e i popoli coloniali. La politica sovietica si diresse, in primo luogo, a stabilire la pace sui propri confini: quindi, cercò di ottenere il massimo possibile di pace nel mondo, mentre i focolai di guerra sembravano moltiplicarsi dappertutto.
    «La pace è indivisibile» dichiarava instancabilmente la diplomazia sovietica per bocca di Maxim Litvinov: e per anni Litvinov fece la spola di tutti i congressi mondiali annoiando i diplomatici col proclamare che la soluzione del problema del disarmo stava nel disarmare.

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   I sovietici furono i primi a firmare il patto Kellog che mette- va fuorilegge il ricorso alla guerra, proposto dagli Stati Uniti. Essi furono quasi sempre i primi a firmare tutte le proposte di pace di quegli anni, qualche volta, ancor prima di essere invitati alle conferenze. Ma Litvinov, se conquistò gli applausi delle organizzazioni pacifiste, non riuscì a influenzare di molto la politica delle maggiori potenze. Molte potenze minori, tuttavia, trassero un concreto vantaggio dall’azione della diplomazia sovietica. L’esistenza della nuova Turchia come uno Stato moderno e indipendente, dopo il 1923, è dovuta in parte all’appoggio offertole dalla diplomazia sovietica alla Conferenza di Losanna. La Cina moderna - tanto il governo di Pechino quanto le forze che ora tramontano a Formosa - sorse mercé l’aiuto che i sovietici diedero a Sun Yat-sen intorno al 1920.
     L’indipendenza della Finlandia fu un dono vero e proprio della rivoluzione bolscevica. Alla caduta dello zar la Finlandia, che allora faceva parte dell’impero russo, chiese di essere indipendente. Il governo Kerensky rifiutò; l’Inghilterra, la Francia e anche gli Stati Uniti non erano affatto ansiosi, a quell'epoca, di proteggere l’indipendenza finlandese, che significava lo smembramento dell’impero dello zar, loro alleato nella prima guerra mondiale. Subito dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, Stalin, che era commissario per le nazionalità, propose che la richiesta dei finlandesi fosse accolta, dichiarando: «Dal momento che il popolo finlandese... è chiaramente desideroso ... di formare uno Stato indipendente, il Governo proletario ... non può far altro che accettare questa richiesta».
    L’ascesa al potere di Hitler cambiò tutti i rapporti di forza in Europa. Per anni l'Unione Sovietica aveva appoggiato le richieste della Germania per una revisione del trattato di  Versaglia, considerandolo un cattivo trattato, stimolo alla guerra. Ma Hitler era uno stimolo alla guerra maggiore del trattato di Versaglia. Quando i tedeschi e i giapponesi abbandonarono la Società delle Nazioni, i sovietici vi entrarono con il dichiarato intento di stringere accordi collettivi contro l’aggressione. Da allora in poi Litvinov cercò alleanze fra le “forze democratiche” per frenare la tendenza dei nazisti alla guerra

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   La Gran Bretagna, però, sotto il primo ministro Chamberlain, rafforzò Hitler concedendogli in fretta tutto ciò che per un decennio era stato negato alla Repubblica tedesca: la rimilitarizzazione della Renania, il plebiscito della Saar, che si svolse sotto il terrore "nazista, il riarmo, il potenziamento navale, l’intervento in Spagna insieme con Mussolini. La grande finanza britannica, che aveva strangolato la democrazia tedesca chiedendo impossibili riparazioni, aiuto Hitler con investimenti e prestiti. In tutto il mondo i democratici attenti e perspicaci sapevano che questi favori a Hitler erano fatti dai conservatori inglesi che vedevano in lui il loro “uomo-fucile” contro i Soviet. I dubbi che potevano essere rimasti sugli scopi reali delle Cancellerie britannica e francese furono cancellati dalla Conferenza di Monaco. La cinica cessione della   Cecoslovacchia fu la carta finale che doveva indurre Hitler a marciare all'est.
   In quei giorni, chiunque considerasse attentamente, come io dovevo fare, le mosse del Governo inglese, si rendeva conto che Chamberlain, parlando di appeasement nei confronti di Hitler, in realtà lo stava stimolando ad andare avanti. Fu lui a suggerire di concedergli il territorio dei sudeti in Cecoslovacchia, prima ancora che i tedeschi avessero osato di chiederlo. Quando sembrò che i cechi si sarebbero decisi a combattere piuttosto di lasciar marciare le armate naziste entro il loro paese senza opposizione, gli ambasciatori inglese e francese a Praga minacciarono il presidente Benes di applicare quella stessa politica del “non intervento” che aveva già consacrato l'assassinio della Repubblica spagnola. In seguito, quando le truppe naziste presero possesso dei territori cechi, si seppe che alcuni industriali inglesi avevano preso accordi coi tedeschi, già da diverse settimane, per il finanziamento delle industrie passate sotto il controllo nazista.
   Il solo alleato che propose di aiutare i cechi a opporsi a questa liquidazione fu l’Unione Sovietica. Ero in vacanza nel Caucaso del Nord quando giunse la notizia della Conferenza di Monaco. Il tentativo dei cechi di resistere fu accolto da ca-

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-lorose approvazioni. Parecchi ufficiali prenotarono i posti sugli aerei in partenza per Mosca: «Può darsi che sia necessario appoggiare i cechi». Poi giunse la notizia che Benes si era arreso alle pressioni britanniche e francesi. Le prenotazioni furono annullate. «Non possiamo far nulla - mi disse un ufficiale a pranzo. - É meglio prepararsi alla prossima aggressione contro la Polonia o Francia».
    Si discusse sulle forze che si nascondevano dietro il tradimento. Come mai Chamberlain e Daladier erano disposti a sacrificare ventisette divisioni ceche e una delle migliori linee fortificate dell’Europa? Che cosa li aveva indotti a cedere a Hitler una delle maggiori fabbriche di armamenti europei, le officine Skoda? Il direttore di un’industria locale disse: «Si può dire in quattro parole: hanno paura del bolscevismo».
    L’aggressione di Hitler si sposto poi rapidamente verso l’est. Il 15 marzo 1939, violando clamorosamente gli accordi, le truppe tedesche marciarono su Praga inerme. L’Unione Sovietica informò i tedeschi di «non poter riconoscere» questa occupazione del territorio ceco. Essa propose alla Gran Bretagna, una conferenza immediata fra la Gran Bretagna, la Francia, la Polonia, la Romania, la Turchia e l’Unione Sovietica per resistere ad ulteriori aggressioni. Chamberlain replicò dicendo che la proposta era “prematura”. Questo fu il segnale: Hitler occupò Memel, il principale porto della Lituania, ed estese la sua minaccia su Danzica, sbocco della Polonia sul Baltico. Verso la metà di aprile sette divisioni tedesche erano schierate sulle frontiere polacche, in attesa dell’ordine di marciare: gli incidenti provocatori si fecero più frequenti. Al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti venne riferito dai suoi rappresentanti in Europa che «le più alte autorità francesi davano le probabilità di una guerra a dieci contro uno››1.
   In Gran Bretagna e in Francia si levarono voci a chiedere un’alleanza con l’Unione Sovietica per fermare Hitler. «Unendosi

1 Queste informazioni furono rivelate da un clamoroso servizio dei fratelli Alsop.

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con l’U.R.S.S., si può salvare la pace», dichiarò Lloyd George, e primo ministro. «L’aiuto russo è vitale per le democrazie», disse Pierre Cot, già ministro dell’Aviazione in Francia. Da un’inchiesta Gallup risultò che il 92 per cento degli elettori inglesi interrogati erano favorevoli a un’alleanza con i sovietici2. L’U.R.S.S. fece varie proposte per una triplice alleanza che doveva garantire sia l’Europa occidentale sia l’Europa orientale dall’aggressione nazista. Ogni proposta veniva bloccata dal Governo Chamberlain, e dopo un po’ lasciata cadere. Chamberlain cercò piuttosto di venire a un accordo con Hitler: il 3 maggio, tra lo stupore della Camera dei Comuni, egli annunciò di essere pronto a firmare un patto di non aggressione con la Germania. Due giorni dopo rifiutò la proposta sovietica di una alleanza militare.
  Anche i conservatori cominciarono a protestare contro le azioni di Chamberlain. Winston Churchill, il 7 maggio, parlando alla Camera dei Comuni, chiese un’alleanza con l”Unione Sovietica. A seguito di tali pressioni, gli ambasciatori inglese e francese a Mosca vennero finalmente incaricati, il 25 maggio, di “discutere” un’alleanza. Dal momento della violenza fatta alla Cecoslovacchia erano state perdute dieci settimane d”importanza vitale. Altre tre settimane furono perdute nell’attesa dell’arrivo a Mosca di un certo signor Strang. Questo rappresentante, inviato dal ministero degli Esteri britannico per “dirigere le discussioni” dimostrò, al suo arrivo, di non essere autorizzato a firmare nulla. Le “discussioni” si pro- trassero per settantacinque giorni, cinquantanove dei quali vennero impiegati dagli inglesi per stendere le proposte, mentre i russi, ritenuti lenti, si sbrigarono in soli sedici giorni. I sovietici, era ovvio, avevano fretta: ma era altrettanto ovvio che gli inglesi volevano tirare per le lunghe. Poi, improvvisamente, si seppe a Mosca che il segretario della commissione parlamentare britannica per il Commercio Estero aveva condotto trattative coi tedeschi, proprio in quelle settimane, per un prestito da mezzo miliardo a un miliardo di sterline.

2 Pubblicato nel New York Times del 4 maggio 1939

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   Per i dirigenti di Mosca era chiaro che la Gran Bretagna voleva prender tempo o stava tentando di spingere la guerra verso oriente. La guerra, essi temevano, pendeva sul loro capo, non solo da parte di Hitler, ma da parte di Hitler spalleggiato dalla Gran Bretagna e dal resto del mondo capitalistico: proprio il tipo di guerra che essi avevano sempre temuto. Durante le trattative di Mosca, la maggior parte degli inglesi si cullava nell'illusione che l’accordo fosse imminente: ma qualcuno vide più a fondo: «Il mondo trema sull’orlo di un gran precipizio», disse Lloyd George.
   Per due volte Mosca fece intendere a coloro che stavano in Inghilterra che le discussioni non conducevano a nulla. Il primo segnale furono le dimissioni di Litvinov dal posto di ministro degli Esteri, il 3 maggio: per dieci anni, Litvinov era stato nel mondo il simbolo di un programma di pace da attuare attraverso accordi collettivi contro l’aggressione. Con le dimissioni di Litvinov, Mosca disse al mondo che questo programma, ormai, era fallito. Esso era stato frustrato in Manciuria, in Abissinia, in Spagna, in Cina, in Austria, in Albania, in Cecoslovacchia, a Memel: otto anni di fallimenti, dovuti alla politica arrendevole o incoraggiante dei capi delle democrazie occidentali verso gli aggressori. Il senso del messaggio era inequivocabile: ma la stampa occidentale era tanto abituata a trattare le faccende sovietiche con banalità propagandistica, che si ebbero solo delle speculazioni sulle colpe per cui Litvinov sarebbe stato liquidato.
   Sei settimane dopo, Mosca diede un secondo segnale. Il 29 luglio Andrei Zhdanov, presidente della commissione degli Affari Esteri del Soviet Supremo, scrisse un articolo sulla Pravda, osservando che le trattative con la Francia e l’Inghilterra stavano insabbiandosi, e che a suo giudizio, né gli inglesi né i francesi volevano davvero un’alleanza, e non miravano a mettere il freno a Hitler, ma continuavano i negoziati solo per tener tranquilli i russi mentre Hitler si preparava ad attaccarli. Questo articolo provocò una breve sensazione all’estero: ma la maggior parte dei com-

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mentatori rifiutò di prendere in considerazione le parole di Zhdanov, trattandolo come una testa calda. Alla fine di luglio, quando tutti i ministeri degli Esteri d’Europa sapevano ormai che Hitler aveva intenzione di occupare il corridoio polacco nel giro di un mese, i sovietici fecero un ultimo tentativo. Essi proposero alla Gran Bretagna e alla Francia di inviare delle missioni militari a Mosca per organizzare immediatamente la difesa collettiva dell’Europa orientale. Le missioni attesero dieci giorni, poi si misero in viaggio per la strada più lunga; quando finalmente raggiunsero Mosca, si scoprì che non avevano alcuna autorità per stabilire alcun accordo. Klementi Voroscilov, ministro sovietico della Guerra, accompagnato da un numero scelto di autorità militari sovietiche, fece delle proposte serie a una missione anglo-francese che non era autorizzata ad accettarle. Egli propose, nel caso di un attacco di Hitler alla Polonia, di inviare due armate sovietiche, una contro la Prussia orientale nel nord e una attraverso il sud della Polonia contro la Germania centrale. La missione anglo-francese rispose di dover trasmettere questa proposta a Varsavia; in seguito riferì che il Governo polacco rifiutava l’aiuto sovietico. Gli inglesi e i francesi che non si erano fatti scrupolo di forzare i cechi, con le minacce, a cedere a Hitler, non usarono alcuna pressione per indurre i polacchi ad accettare l’aiuto sovietico.
   A questo punto i negoziati vennero interrotti. «Un banale pretesto addotto nelle trattative», così Voroscilov definì la cosa, nel suo rapporto alla sessione di agosto del Soviet Supremo.
   Così l’Unione Sovietica prese la sua decisione. Hitler aveva offerto un patto di non aggressione; egli ammise più tardi, nella sua dichiarazione di guerra contro l’Unione Sovietica, che la richiesta era partita da lui. Il patto fra la Germania e l'U.R.S.S. venne firmato il 23 agosto. Non si trattava di un'alleanza, quale l’U.R.S.S. aveva offerto alla Gran Bretagna e alla Francia; era semplicemente una dichiarazione di neutralità come quella che l’U.R.S.S. e la Germania si erano scambiate nel 1926, ma che era caduta in disuso sotto Hitler. Molotov

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riferì che l’U.R.S.S. aveva firmato perché «non ci si poteva aspettare la conclusione di un patto di reciproca assistenza (con la Gran Bretagna e la Francia) ››.
     La firma del patto nel momento in cui l’Europa,da un’ora all’altra, attendeva l’attacco di Hitler alla Polonia mutò l’equilibrio delle forze nel Continente. Da parte dell’Europa orientale le prime reazioni furono favorevoli. «La tensione è diminuita» dicevano i dispacci dalla Bulgaria. Comunicati dalla Lettonia e dall’Estonia dicevano: «Dato che i nostri due grandi vicini.. si sono accordati per mantenere relazioni pacifiche tra di loro, la tensione nella zona del Baltico è diminuita». Il ministro degli Esteri polacco trovò la situazione «immutata» dato che «la Polonia  non si era mai aspettata un aiuto da parte sovietica e non lo desiderava››3. L’Europa orientale sperava chiaramente che il patto, pur non potendo arrestare l’attacco di Hitler alla Polonia, bloccasse il dilagare della guerra verso oriente.
    Gli alleati di Hitler erano furiosi. Mussolini e Franco disapprovarono apertamente. Il colpo fu terribile per Tokio, perché il Giappone stava già combattendo contro l’Unione Sovietica sui confini della Mongolia, e si diceva che avesse dichiarato a Hitler che in agosto sarebbe stato pronto ad unirsi “al grande attacco”. Il Gabinetto giapponese cadde in mezzo ad aspri attacchi alla Germania che aveva firmato la pace con l’Unione Sovietica. I conservatori che a Londra avevano sostenuto Hitler erano i più carichi di odio: per la prima volta essi chiesero la testa di Hitler. Ma la speranza e l’abitudine erano dure a morire nel Governo di Chamberlain. Per dieci giorni ancora, e anche dopo la marcia di Hitler sulla Polonia, Chamberlain continuò a lavorare per una conferenza delle quattro potenze di Monaco - Gran Bretagna, Francia Germania e Italia - per decidere il destino della Polonia attraverso un accordo con Hitler. Solo dopo il rifiuto opposto a questo tentativo, Chamberlain decise a firmare l’alleanza con la Polonia, lungamente procrastinata ed esortò i polacchi a resistere.

 5 United Press, 23 agosto 1940,

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  Ma ormai, com’era possibile che i polacchi resistessero? L' Inghilterra non mandò aiuti. L’aviazione polacca cessò di funzionare in due giorni; nello spazio di due settimane, non ci fu più nemmeno un esercito polacco organizzato. Il Governo polacco si mise in fuga verso qualche punto imprecisato presso la frontiera romena, lasciando dietro di sé solo l’eroico sindaco di Varsavia a organizzare un’ultima difesa con una schiera di civili disperati. Il solo aiuto che avrebbe potuto giungere in tempo, e la cui sola promessa, se accettata, avrebbe forse fermato l’invasione, era quello dei russi: fu rifiutato da un Governo polacco che odiava i bolscevichi più di quanto non odiasse Hitler. Intanto, i “duri” della stampa conservatrice inglese facevano ancora sentire la loro voce, per manifestare la speranza, non già di salvare la Polonia, ma di “rovesciare la guerra”, nel tracollo dell’Europa orientale, contro l’Unione Sovietica.

    In quel periodo tragico, mentre la Polonia si stava sgretolando, un diplomatico sovietico mi disse: «Se non fosse per il nostro patto di non aggressione noi saremmo ora esposti all’attacco sia dall’Europa che dall'Asia, a causa dell’alleanza della Germania, dell’Italia e del Giappone. La Gran Bretagna e la Francia avrebbero tenuto la linea Maginot e avrebbero finanziato Hitler. L’America sarebbe stata l’arsenale del Giappone contro di noi, come lo è stata contro la Cina. Con il patto di non aggressione noi abbiamo introdotto un cuneo fra Hitler, il Giappone e i sostenitori di Hitler a Londra. Era troppo tardi per fermare l'invasione della Polonia. Chamberlain non ha neppure tentato. Ma noi abbiamo diviso il campo del fascismo mondiale e non avremo da combattere tutto il mondo››.

    Così, la lunga lotta per la pace attraverso accordi collettivi fra le forze democratiche finì con un fallimento. Comincio la seconda guerra mondiale. Ma l’Unione Sovietica aveva guadagnato, con il patto di non aggressione, un respiro di circa due anni. E, cosa ancora più importante, aveva staccato Hitler dai suoi sostenitori occidentali per tutta la durata della guerra.

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         VII

                                                    Il patto che fermò Hitler     

                                                                 (capitolo ancora da correggere) 

   «Varsavia, come capitale dello Stato polacco, non esiste più. Nessuno sa dove sia il Governo polacco. La Polonia è diventata un fertile campo per ogni eventualità capace di creare una minaccia per l'Unione Sovietica».
   Con queste parole, V. M. Molotov annunciò il 17 settembre 1939, prima con una nota all’ambasciatore polacco e poi per radio al mondo, che l’Armata sovietica marciava sulla Polonia.        Gli inglesi compresero il significato di questa marcia più di quanto lo comprendessero gli americani. Gli americani ancora parlano di Stalin come del «complice di Hitler» nella cinica divi- sione della Polonia. Ma Winston Churchill disse in un discorso radio trasmesso il 1° ottobre: «I sovietici hanno fermato i nazisti nella Polonia orientale. Vorrei soltanto che lo avessero fatto come nostri alleati». Bernard Shaw, nel Times di Londra, levò «tre evviva a Stalin», che aveva inflitto a Hitler «la sua prima sconfitta». Lo stesso ministro Chamberlain comunicò arcignamente alla Ca- mera dei Comuni, il 26 ottobre: «È stato necessario per l’Armata Rossa occupare parte della Polonia, per proteggersi dalla Germania». Il Governo polacco in esilio, che in quel momento era in fuga attraverso la Romania, ma che raggiunse Londra alcune settimane più tardi, non si azzardò mai a dichiarare quella marcia sovietica un atto di guerra. La popolazione della zona non ostacolò le truppe sovietiche, le accolse invece con gioia. La maggior parte non erano polacchi, ma ucraini e bielorussi. L’ambasciatore americano Biddle riferì che la gente accettava i russi «come se stessero svolgendo un compito di polizia». I dispacci parlarono di trup-

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pe russe che marciavano a fianco a fianco con le truppe polacche in ritirata, e di ragazze ucraine che appendevano ghirlande sui carri armati sovietici. Il comandante della guarnigione polacca di Leopoli, che aveva sostenuto per diversi giorni l’attacco tedesco da tre lati contro la città, si arrese senza por tempo in mezzo all’Armata Rossa, quand’essa sopraggiunse sul quarto lato. «Non c’è più alcun Governo polacco dal quale io possa ricevere ordini - egli dichiarò - ; e io non ho ordini per combattere contro i bolscevichi». Le cifre delle perdite dell’Armata Rossa,-:comunicate in seguito, dimostrano che la marcia incontrò solo l’opposizione di piccole bande: in tutta la campagna vi furono soli 737 morti e 1.862 feriti. La maggior parte delle perdite si ebbero nella presa di Vilno, raggiunta da un piccolo corpo motorizzato che aveva l’ordine di «arrivare a Vilno entro mezzanotte», partendo dalla frontiera a 100 chilometri di distanza.
   L’opinione americana che Stalin e Hitler si fossero spartita la Polonia in anticipo non è giustificata dal modo in cui la suddivisione ebbe luogo. La linea di demarcazione fra tedeschi e russi cambiò tre volte prima di venir fissata nel corso di una conferenza, il 28 settembre. Non è credibile che le truppe tedesche abbiano fatto tutta la strada fino a Leopoli, assediandola per vari giorni, solo per consegnare la città all’U.R.S.S. Né è da credere che i russi avrebbero arrischiato tante vite umane per affrettarsi ad occupare Vilno, se la città fosse stata assegnata a loro già da pri- ma. Sembra probabile che sia stata fatta qualche dichiarazione sull’interesse della Russia per le zone non polacche della Polonia, ma non che l’avanzata dell’esercito, stando a come essa ebbe luogo,  sia stata concordata in precedenza.  
   L’opinione in Europa orientale era che Hitler non avesse intenzione di occupare solo la Polonia, ma intendesse spingersi verso sud-est nei Balcani e forse verso nord-est nei paesi baltici il più lontano possibile, utilizzando Leopoli come la capitale di un’Ucraina nazista. La strategia tedesca stava ad indicare questo, perché dopo la rottura del fronte polacco i tedeschi, senza attendere di assestarsi in Polonia, si diressero immediatamente attra-

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verso il paese, a sud-est su Leopoli e a nord-est su Vilno. Si disse che fossero state organizzate varie rivolte da parte delle Guardie di Ferro in Romania per accogliere le truppe tedesche. Se ne vide una conferma nell’assassinio del primo ministro Calinescu all’avvicinarsi dei tedeschi, e in una sommossa che si era sviluppata in una città romena sul confine polacco, ma che si spense immediatamente quando si vide che le truppe al di là del fiume non erano tedesche ma russe  
    L’azione dei sovietici ha frenato qualunque progetto potesse avere Hitler nei riguardi della Romania››: questa era l’opinione di Londra, trasmessa al New York Times il 28 settembre. «Il rispetto per la Russia è aumentato notevolmente; i contadini indubbiamente preferiscono i russi ai tedeschi lungo i loro confini», così si leggeva in un messaggio dell’Associated Press dall’Europa orientale, il 27 settembre.  
   L’avanzata sulla Polonia orientale, perciò, non sembra esser nata da una connivenza con Hitler, ma piuttosto appare come il primo grande freno che i sovietici posero a Hitler applicando il patto di non aggressione. Essa appare anche calcolata al secondo. Dodici ore prima, infatti, in qualche parte della Polonia si sarebbe potuto trovare un Governo polacco, abbastanza funzionante da poter dichiarare l’avanzata russa un’azione bellica, gettando così la Russia in guerra con la Gran Bretagna, alleata della Polonia. Dodici ore più tardi i russi avrebbero potuto trovare i tedeschi già introdotti in Romania a sud e negli Stati baltici a nord. L’Armata Rossa compì la sua avanzata proprio in quelle dodici ore in cui il Governo polacco era scomparso nell’ombra e i tedeschi non avevano ancora occupato le città strategiche di Leopoli e Vilno. 
    Da quel momento in poi l’Unione Sovietica utilizza il respiro concessole dal patto, non solo per prepararsi alla difesa, ma anche per bloccare la penetrazione di Hitler nell’Europa orientale con misure che giungevano sull'orlo della guerra. Hitler stesso rivelò più tardi questi retroscena, nella dichiarazione di guerra tedesca contro l’U.R.S.S., elencando amaramente gli atti con cui i russi lo avevano ostacolato.

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    La prima mossa di Mosca fu di costituire una vasta cintura di resistenza lungo i confini occidentali a mezzo di alleanze. Avendo preparato il terreno per rapporti amichevoli, con la restituzione alla Lituania della sua antica capitale, Vilno, che i polacchi avevano occupato venti anni prima sfidando la Società delle Nazioni, Mosca invitò la Lituania, la Lettonia e l’Estonia a mandare i loro ministri degli Esteri per discutere un’alleanza. Uno ad uno, essi vennero e firmarono senza difficoltà. Il 10 ottobre -1959, a meno di un mese di distanza dalla loro marcia sulla Polonia, i sovietici si erano garantiti alleanze militari con questi tre Stati baltici, che nel passato erano stati le strade maestre dell’invasione. Così una potente catena di basi navali, originariamente costruita da Pietro il Grande, venne a trovarsi sotto il controllo sovietico. Mentre la maggior parte dei commentatori americani denunciava questa azione, Walter Lippman centrò la situazione dicendo: «Ogni giorno diventa più chiaro che la Russia sta costruendo una grande zona di difesa dal Baltico al Mar Nero». Gli Stati baltici, da parte loro, si risentirono per il termine di “vassalli”, che la stampa anglo-americana usò nei loro confronti. Essi non giudicavano di aver fatto un cattivo affare. A quell’epoca, mentre la loro organizzazione interna era rimasta intatta, tutto si limitava alla cessione di basi navali all’U.R.S.S. in cambio dell’assistenza difensiva contro Hitler. 
   Subito dopo, venne la drammatica espulsione di mezzo milione di tedeschi dalle terre baltiche. Per Hitler, fu un colpo amaro, e la sua irritazione ha un’eco nel passo della dichiarazione di guerra, dove si dice che «più di 500.000 uomini e donne furono costretti... ad abbandonare la loro terra... Di fronte a tutto ciò io rimasi in silenzio, perché vi ero costretto». Queste non sono le parole compiaciute di chi abbia ottenuto una vittoria. I tedeschi del Baltico erano stati la classe dominante dei paesi baltici: alcuni di essi vi si trovavano da secoli, come baroni e proprietari terrieri. All'epoca della rivoluzione russa, erano state queste classi a chiamare le truppe tedesche per rovesciare i Governi rivoluzionari locali. Per

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l’U.R.S.S., la loro espulsione significò la dispersione della quinta colonna più pericolosa d’Europa             Dopo aver garantito la parte meridionale del Baltico contro ogni attacco di sorpresa, Mosca si rivolse alla Finlandia, nelle cui mani si trovava il varco dal nord. Per quanto l’indipendenza della Finlandia fosse un regalo disinteressato della rivoluzione russa, la Finlandia era nota come il paese baltico più ostile. L’originaria Finlandia democratica era stata rovesciata nel sangue dal barone Mannerheim, ex generale zarista, con l’aiuto delle truppe del Kaiser. La Finlandia era divenuta una base per l’attività internazionale contro l”U.R.S.S. La linea Mannerheim - un sistema di forti ben studiati per proteggere vaste forze in caso di un attacco a Leningrado - era stata costruita sotto la direzione inglese. Più tardi, aeroporti finlandesi vennero costruiti dai nazisti. Costruiti per duemila aeroplani, mentre la Finlandia ne aveva centocinquanta, essi erano evidentemente destinati ad essere usati da una potenza maggiore.   
     Mosca sapeva che la Finlandia non avrebbe accettato volentieri un’alleanza. Ma i sovietici avevano qualcosa da offrire. Il commercio estero della Finlandia era rovinato dalla guerra anglo-tedesca, che bloccava il Baltico. La Finlandia, colpita da una depressione, desiderava commerciare con l’Unione Sovietica, e desiderava poter usufruire della ferrovia Leningrado-Murmansk per ristabilire un accesso verso il mondo. Ma, quando Mosca, il 5 ottobre 1939, invitò la Finlandia ad inviare un plenipotenziario per discutere “le questioni in pendenza” il risultato fu sorprendente. Il Governo finlandese, prima di rispondere, dichiarò la mobilitazione parziale, mandò un gran numero di forze armate al confine, chiuse la Borsa, chiese alle donne e ai bambini di lasciare la capitale, Helsinki, e si rivolse all’America per ottenere “un sostegno morale”. La stampa sovietica manifestò una ironica irritazione per il “panico creato a bella posta”. La delegazione finlandese arrivò a Mosca l’11 ottobre. Dapprima i sovietici proposero un'alleanza, ma vi rinunciarono dato che i finlandesi non ne volevano sapere. Poi pro-

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posero uno scambio di territori per proteggere Leningrado. Essi richiesero che il confine fosse spostato abbastanza indietro da lasciare Leningrado fuori dal tiro dei cannoni, e che alcune piccole isole che fronteggiavano l'accesso al mare fossero cedute all'U.R.S.S. Offrirono in cambio un territorio doppiamente esteso, doppiamente buono, ma di minore importanza strategica. Chiesero anche una concessione di trenta anni per I-Iangoe o per qualche altro punto dellientrata del Golfo di Finlandia - la lunga sottile via diacqua che porta a Leningrado - come base navale. Il presidente della Finlandia Cajander dichiarò per radio che questi termini non intacca- vano l°integrità della Finlandia. Le trattative si protrassero per un mese, durante il quale Mosca aumentò le proprie offerte. La Finlandia manteneva la richiesta di un territorio in rapporto di tre a uno circa con quello richiesto dai sovietici; e la base di Hangoe non sarebbe stata ceduta per trent°anni ma solo per il periodo della guerra anglo-tedesca e poi avrebbe dovuto essere restituita alla Fin- landia completamente equipaggiata. Molti finlandesi si van- tavano delle “trattative vantaggiose” che i loro diplomatici sta- vano concludendo. Poi, improvvisamente, i negoziatori fin- nici interruppero le discussioni affermando in modo oscuro che le circostanze avrebbero deciso quando e da chi esse sa- rebbero state riprese. Il New Kwk Times riporto che «i circoli diplomatici a Washington›› ritenevano che i finlandesi fosse- ro influenzati dalla speranza di prestiti da parte degli Stati Uniti. Dato che il Parlamento finlandese non era stato nep- pure convocato, Mosca ritenne che fosse chiaro come il gabi- netto finlandese agisse dietro pressioni di quelle forze dellioc- cidente che desideravano “rovesciare la guerra”. Così, quando l'artiglieria finlandese sparo oltre il confine, verso la fine di novembre, causando la morte di alcuni soldati dell°Armata Rossa, Mosca protesto aspramente e, avendo la Fin- landia ignorato la protesta, le truppe sovietiche invasero la Fin- landia il 30 novembre 1939. La Finlandia dichiarò la guerra e fece appello all'aiuto straniero. La Società delle Nazioni espulse la 148 Russia per “aggressione”. Poche azioni dell°Unione Sovietica le hanno alienato più amici di quanto non abbia fatto la guerra russo-finlandese. Neppure i russi ne erano orgogliosi. Nessuno e orgoglioso di una guerra preventiva: i russi la consideravano pre- ventiva in difesa di Leningrado. Per comprendere la guerra finno-sovietica dobbiamo in- quadrarla nella scena della seconda guerra mondiale, di cui essa faceva parte. Verso la fine del 1939 la seconda guerra mondiale non era ancora totale. Hitler stava rafforzando le sue posizioni guadagnate in Cecoslovacchia e in Polonia. L°avanzata russa aveva bloccato ogni altro piano che egli aves- se per liest. Né Hitler né l°occidente si erano ancora attaccati in modo serio. Il fronte occidentale era in quello stadio che fu chiamato «la drôle de guerre››,- le truppe di entrambe le par- ti erano immobili nelle fortificazioni. Hitler non era ancora preparato per un assalto generale a occidente: ci voleva tem- po per organizzarlo. E Hitler era anche conscio di avere ami- ci nelle classi più elevate, in Francia e in Gran Bretagna, che avrebbero potuto cedere alle sue richieste. Voci importanti, sulla stampa inglese, francese e americana insistevano che era cominciata “la guerra sbagliata”, che la guerra avrebbe dovu- to spostarsi contro l°U.R.S.S., il nemico più grande. Questa campagna di stampa non fu causata dalla guerra di Finlandia. Essa cominciò addirittura quando Hitler stava inva- dendo la Polonia; era la continuazione della linea di Chamber- lain. Così quando la Finlandia ruppe i negoziati, Mosca ritenne che i finlandesi volessero mantenere i confini in fermento con incidenti durante l”inverno, per portare poi alfintervento di po- tenze più forti in primavera. «Ljidea di venire in aiuto alla Finlan- dia - spiegò il ministro svedese della Difesa Guenther difenden- do la politica di neutralità della Svezia dopo la fine della guerra - apriva nuove prospettive agli alleati occidentali. Il punto morto sul fronte occidentale non era popolare e la stampa francese par- lava della ricerca di nuovi campi di battaglia». Per il resto dell°inverno, la guerra in occidente non godé più dell”onore delle prime pagine: gli occhi del mondo

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Russia per “aggressione”. Poche azioni dell°Unione Sovietica le hanno alienato più amici di quanto non abbia fatto la guerra russo-finlandese. Neppure i russi ne erano orgogliosi. Nessuno e orgoglioso di una guerra preventiva: i russi la consideravano pre- ventiva in difesa di Leningrado. Per comprendere la guerra finno-sovietica dobbiamo in- quadrarla nella scena della seconda guerra mondiale, di cui essa faceva parte. Verso la fine del 1939 la seconda guerra mondiale non era ancora totale. Hitler stava rafforzando le sue posizioni guadagnate in Cecoslovacchia e in Polonia. L°avanzata russa aveva bloccato ogni altro piano che egli aves- se per liest. Né Hitler né l°occidente si erano ancora attaccati in modo serio. Il fronte occidentale era in quello stadio che fu chiamato «la drôle de guerre››,- le truppe di entrambe le par- ti erano immobili nelle fortificazioni. Hitler non era ancora preparato per un assalto generale a occidente: ci voleva tem- po per organizzarlo. E Hitler era anche conscio di avere ami- ci nelle classi più elevate, in Francia e in Gran Bretagna, che avrebbero potuto cedere alle sue richieste. Voci importanti, sulla stampa inglese, francese e americana insistevano che era cominciata “la guerra sbagliata”, che la guerra avrebbe dovu- to spostarsi contro l°U.R.S.S., il nemico più grande. Questa campagna di stampa non fu causata dalla guerra di Finlandia. Essa cominciò addirittura quando Hitler stava inva- dendo la Polonia; era la continuazione della linea di Chamber- lain. Così quando la Finlandia ruppe i negoziati, Mosca ritenne che i finlandesi volessero mantenere i confini in fermento con incidenti durante l”inverno, per portare poi alfintervento di po- tenze più forti in primavera. «Ljidea di venire in aiuto alla Finlan- dia - spiegò il ministro svedese della Difesa Guenther difenden- do la politica di neutralità della Svezia dopo la fine della guerra - apriva nuove prospettive agli alleati occidentali. Il punto morto sul fronte occidentale non era popolare e la stampa francese par- lava della ricerca di nuovi campi di battaglia». Per il resto dell°inverno, la guerra in occidente non godé più dell”onore delle prime pagine: gli occhi del mondo
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erano fissi sulla guerra in Finlandia, e sui tentativi in oc- cidente di trasformarla in -un attacco collettivo contro l°U.R.S.S. Lo scopo di Mosca era di farla finita prima che le maggiori potenze potessero intervenire. Durante questa guerra, i sovietici commijsero certamente errori politici e militari, tuttavia non nella misura che si ritiene solitamen- te in America. ,›'-- ._ -5"`l\/lilitarmente, la campagna si svolse in quattro fasi. La pri- ma ebbe per obbiettivoi l°allontanamento della linea del fron- te da Leningrado e la conquista dello sbocco finlandese sul- l”Artico, Petsamo, per impedire alla guerra mondiale l”acces- so alla Finlandia, e attraverso la Finlandia, all°U.R.S.S.: nella zona di Leningrado, la frontiera terrestre fu spinta indietro di sessanta chilometri, il porto di Petsamo fu preso nello spazio di due settimane. Ilinizio dell'inverno più freddo a memoria diuomo determinò poi una seconda fase di relativa passività. La terza fase delle operazioni vide il bombardamento aereo degli obiettivi militari della Finlandia: industrie belliche, fer- rovie, porti e aerodromi. Le vittime civili furono poche: se- condo dati finlandesi i morti civili a causa di bombardamenti aerei furono 640 nel corso dell°intera guerra. La quarta fase consistette nella rottura della linea Manne- rheim - un sistema di fortificazioni «per certi aspetti più soli- do della linea Maginot››1. Un'acuta manovra consentì di spez- zare in un mese la linea fortificata: essa era considerata im- prendibile, e in effetti fu la prima volta che una linea di quel- la portata venne presa con un assalto diretto. Ifartiglieria pe- sante crivellò il terreno intorno alle fortificazioni, finché le bocche da fuoco dei difensori non furono rese inservibili nei loro piazzamenti. Poi cominciò l°assalto. Con la rottura della linea Mannerheim la resistenza della Finlan- dia crollo. Il trattato di pace venne firmato a Mosca il 12 marzo 1940. Londra e Parigi tentarono con ogni mezzo di evitare la fir- ma di questo trattato. La Gran Bretagna si rifiutò di trasmet- 1 Cfr. ]A1\/[ES ALTRIC1-1, nel New York Times del 14 marzo 1940.

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tere l'appello della Finlandia, così la Svezia fece da interme- diaria. -Il premier francese, Daladier, disse alla Finlandia che una spedizione anglo-francese era pronta ad imbarcarsi per venire in suo aiuto e che, se i finlandesi non ne facevano ri- chiesta, gli alleati non avrebbero neppure garantito la soprav- vivenza della Finlandia dopo la guerra. Chamberlain e Dala- dier fecero pressioni sulla Svezia per far passare questa spedi- zione di forze dirette alla Finlandia, pur sapendo che ciò avreb- be coinvolto la Svezia nella guerra. Il 10 marzo Chamberlain disse alla Camera dei Comuni che egli stava considerando il modo di rompere la neutralità svedese per costringere la guerra finnica a proseguire. «Londra è piena di voci di guerra su un fronte molto più esteso, e forse di guerra contro l°U.R.S.S.›› comunicava il cor- rispondente londinese del New Mark Times l`11 marzo 1940. Ma questi rumori di guerra venivano troppo tardi. Il ten- tativo di “rovesciare la guerra” su uno schieramento mondiale contro l”U.R.S.S. s'infranse sulla persistente neutralità della Svezia e sulla sottovalutazione che il maresciallo Mannerhe- im aveva dato della forza sovietica. Mannerheim aveva dichiarato agli alleati anglo-francesi che avrebbe potuto resistere da solo fino a maggio: per quell°epo- ca, Chamberlain contava di aver costretto la Svezia a permet- tere il passaggio delle truppe dispedizione. Ma due mesi pri- ma del termine posto da Mannerheim per l°arrivo dei rinfor- zi, i finlandesi avevano ormai chiesto la pace, e la guerra russo-finlandese apparteneva al passato. I termini della pace attribuirono ai sovietici la zona della linea Mannerheim e la base navale di I-Iangoe, pro- teggendo così entrambi gli accessi a Leningrado, per ter- ra e per mare. Però essi riconsegnarono alla Finlandia Petsamo e le sue miniere di nikel; i russi non chiesero indennità ma concordarono di fornire alimenti a una Finlandia che moriva di fame. Le condizioni, dato quel che si suole vedere in questi casi, non potevano essere considerate eccessive: Sir Stafford Cripps, ambasciatore

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britannico a Mosca nel 1940, mi fece osservare durante un té all°an1basciata che i russi avrebbero potuto pentirsi in seguito di non aver chiesto di più nel momento in cui potevano ot-tenerlo. Sir Stafford pensava a Petsamo, che poco dopo, infatti, divenne una base dei nazisti contro i convogli-alleati sulla rotta di Murmansk. Ma l°ambascia- tore aveva torto, e il senso politico di Stalin andava più a fondo di quello di Sir Stafford: la moderazione delle condizioni di pace sovietiche era ispirata da motivi sag- giamente considerati. Se le loro richieste fossero andate al di là di quel che era palesemente necessario per la sicurezza di Leningrado, la neutralità svedese avrebbe potuto esserne scossa e il fronte mondiale che si cristal- lizzò poi finalmente contro Hitler, avrebbe potuto cristal- lizzarsi un anno prima: contro l”Unione Sovietica. La guerra sul suolo finnico fece conseguire delle vittorie fuori dalla Finlandia. La serie delle azioni sovietiche, da.ll'avan- zata in Polonia fino al trattato con la Finlandia, aveva con- vinto l°Europa orientale che l°U.R.S.S. era forte, sapeva quel che voleva e lo voleva seriamente, fino ad arrivare ad una guer- ra, ma che le sue richieste avevano delle precise ragioni e dei limiti. Una cosa che essa voleva chiaramente nel 1940 era una vasta cintura di sicurezza dal Baltico fino al Mar Nero. Così la Romania comprese che era arrivato il momento di re- stituire la Bessarabia, che aveva strappato al giovane potere sovieti- co nei giorni in cui questo era debole, nel 1918. La sua popolazio- ne non era romena: si erano verificate 153 insurrezioni contro la Romania in sei anni. EU.R.S.S. non aveva mai riconosciuto l°oc- cupazione, ma non l°aveva mai ritenuta degna di una guerra. I so- vietici avevano atteso per vent'anni il momento giusto. Mentre Hi- tler era occupato nella conquista della Francia, Mosca chiese alla Romania la Bessarabia e liottenne senza guerra. Un ramo del delta del Danubio divenne così l”estrema frontiera meridionale del- l°U.R.S.S. e di nuovo le navi russe navigarono sul grande fiume. Ormai, la lunga cintura di resistenza attraverso l'Europa era completa, da I-Iangoe sul Baltico alle bocche del Danubio

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sul Mar iNero: Hitler, reduce della devastazione dell°Europa occidentale, stava volgendosi all°est. Secondo Hitler, l°entrata dei russi in Bessarabia salvò l°Inghilter-ra dall°invasione tedesca. Questa è certamente una millanteria, e d”altra parte Hitler stava cercando di metter tutto in un fascio per giustificare la sua invasione dell”U.R.S.S. Tuttavia, questa dichiarazione aveva, in par» te, una certa base di fatto. Per comprendere questo, dob- biamo rivolgere la nostra attenzione alla situazione della guerra sul fronte occidentale. Durante la guerra finnica, Hitler non portò seri attacchi all”occidente per le ragioni che abbiamo detto. Ma nella pri- mavera del 194O, i tedeschi lanciarono un rapido, vittorioso attacco contro l°occidente; occuparono la Danimarca e la Norvegia, si riversarono attraverso l°Olanda e il Belgio, e an- nientarono l'esercito francese in undici giorni. Occupata la costa atlantica dell)Europa, tutto era pronto per invadere l°In- ghilterra. Ifesercito inglese, disorganizzato dalla disfatta in Francia, aveva lasciato i suoi equipaggiamenti migliori sulle spiaggie di Dunkerque. Chiunque può ricordare l°atmosfera di quei giorni; io passai da Berlino in quelliestate nel mio viag« gio verso Mosca: i capi nazisti vantavano la loro certezza di essere in Gran Bretagna per l°inizio delliautunno. Gli esperti militari di tutti i paesi aspettavano l°invasione da un momen- to all°altro, e i più consideravano insufficienti le difese del~ l°isola. Le riserve auree inglesi erano già state evacuate nel Canada, e i commentatori politici discutevano la possibilità di unievacuazione del Governo. Improvvisamente Hitler ritirò la maggior parte delle for- ze dalla costa atlantica e le lanciò attraverso l°Europa, ver- so sud-est, nei Balcani. Più tardi egli motivò questa mossa dicendo che non poteva impiegare le enormi forze neces- sarie per un°invasione della Gran Bretagna mentre i russi andavano prendendo terreno alle sue spalle. La Bessarabia era ricca di grano; la sua cessione all°U.R.S.S. aveva di~ sturbato la base economica di Hitler nei Balcani e stimo-

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lato le forze antinaziste in quei paesi. Bisognava prima far pulizia nei Balcani, disse Hitlerz. Nei calcoli di I-Iitler,i la guerra nei Balcani non avrebbe dovuto risolversi in una lunga campagna. Egli aveva tutto da perdere con una guerra lunga in una zona su cui contava per il petrolio e le derrate alimentari, ma aveva interesse invece a controllarla con la penetrazione economica o ad occuparla con una rapida azione che non distruggesse i raccolti e le indu- strie. La soluzione ideale per lui sarebbe stata quella di con- solidare la penisola balcanica contro l°U.R.S.S., annientare le armate anglo-greche in Grecia e poi occupare il Mediterra- neo orientale e Suez con una avanzata simultanea attraverso la Turchia e l°Africa. L°aiuto americano alla Gran Bretagna an- dava aumentando, il conflitto poteva durare a lungo, perciò Hitler aveva bisogno del petrolio del vicino Oriente. «Da quel momento in poi - dichiarò von Ribbentrop più tardi -la politica antitedesca della Russia sovietica divenne più evidente». Egli designava così gli atti con cui l'U.R.S.S. aveva ostacolato e ritardato la campagna tedesca nei Balcani. Ciò av- venne mediante note diplomatiche: una protesta alla Bulgaria per aver ceduto, un patto di non aggressione con la Jugoslavia, una dichiarazione alla Turchia che se avesse ostacolato il passag- gio delle truppe tedesche questo sarebbe stato «compreso e gra- dito». Von Ribbentrop accusò i sovietici di «aiutare segretamen- te il riarmo della Jugoslavia». Era di dominio pubblico fra i cor- rispondenti a Mosca, quelfautunno, che i sovietici mandavano 2 ll testo della dichiarazione di guerra hitleriana contro l°U.R.S.S. suo- na, su questo punto: «Mentre i nostri soldati, a partire dal 5 maggio 1940, erano occupati a spezzare le resistenze franco-inglesi in occidente, lo schie- ramento militare russo continuava ad ampliarsi in modo sempre più mi- naccioso... Dall'agosto 1940 io considerai quindi che gli interessi del Rei- ch non permettessero più che le nostre province orientali...rimanessero sen- za protezione... ln questo modo, si produsse una cooperazione dei sovieti- ci cogli inglesi...che immobilizzava tante nostre forze in oriente da far sì che la conclusione radicale della guerra in occidente non potesse più.. .essere raccomandata dall'alto comando tedesco››.
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rifornimenti alimentari sia alla Grecia che alla jugoslavia. Se mandavano-:anche armi, questo era nei loro diritti di nazione neutrale, anche secondo i termini del patto di non aggressione. L°U.R.S.S. aveva promesso di non prendere parte ad un°aggres- sione contro la Germania: ma l°aiuto alle vittime di Hitler non poteva essere definito aggressione. Nel frattempo, si stava svolgendo una rapida lotta interna per il controllo dei tre piccoli Stati baltici: Estonia, Lettonia e Lituania. Questi avevano delle alleanze militari con l°U.R.S.S., cui avevano ceduto alcune basi navali; ma i loro governi erano delle dittature semifasciste, con tendenze favo- revoli al nazismo. La marcia di Hitler verso l°est incoraggiava i gruppi pro-nazisti in questi Stati. L°U.R.S.S. chiese il diritto di mandare maggiori contingenti di truppe in questi paesi, «in vista delle sempre più agitate condizioni dell°Europa››. Il 15 giugno 1940, tecnicamente in qualità di alleati, notevoli forze dell°Armata Rossa entrarono nei paesi baltici. Le auto- rità locali favorevoli alla Germania si diedero alla fuga. «Stalin ha battuto Hitler nel Baltico per uno spazio di forse 24 ore», disse un corrispondente da Vilno. La maggior parte dei lituani con cui venni a contatto condivideva questa opinione. Ebbi la fortuna di trovarmi di passaggio in quella zona, diretta da Berlino a Mosca. Apprendendo che cosa stava ac- cadendo in Lituania rimasi, e vidi lo sconcertante quadro di un'occupazione dall°interno. Era una cosa molto costituzio- nale e molto serena. Quando il presidente favorevole ai tede- schi fuggì, assunse il potere il vice presidente. Egli nominò un nuovo premier e poi diede le dimissioni. Questo portò al potere ]ustas Paletskis, un giornalista progressista. I prigio« nieri politici vennero liberati: i sindacati cominciarono ad or- ganizzarsi liberamente; organizzazioni di ogni genere si rico- stituirono rapidamente. Giorno e notte il canto non si spe~ gneva mai nelle strade di Kaunas, la capitale. Si ebbero delle nuove elezioni per “un governo del popolo”, e ci fu un enor~ me plebiscito per andare alle urne. Si riunì la nuova assem- blea, che dichiarò la Lituania una Repubblica sovietica, e fece

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domanda di annessione all”Unione Sovietica. Per tutto quel tempo i lavoratori e i contadini festanti, felici del crollo della dittatura favorevole ai nazisti, pensavano di esprimere sem- plicemente i propri desideri." L°Armata Rossa non si mischiò alla politica, solo scambio balli e rappresentazioni teatrali con l°esercito lituano su una base di “fraterna eguaglianza”. _ _ Solo una volta sentii parlare del ruolo svolto da Mosca. Ãlcuni intellettuali di Kaunas giudicavano che le cose andas- sero troppo in fretta. Avrebbero voluto che alle elezioni si ar- rivasse più lentamente, attraverso liorganizzazione e il dibat- tito dei partiti. Ma queste preoccupazioni non diedero pen- sieri agli operai e ai contadini della Lituania: essi compilaro- no le liste nelle sedi sindacali, e votarono. Gli intellettuali oc- cidentalizzati avrebbero voluto più calma. «Anche molti di noi pensano che tutto è fatto troppo pre- cipitosamente - disse il capo delfagenzia telegrafica a una don- na che protestava. - Ho saputo che Paletskis aveva chiesto sei mesi di tempo per portarci nell”Unione, ma Molotov ha ri- sposto che non si poteva aspettare». Un fremito corse fra i presenti: «Volete dire che potrebbe arrivare Hitler - disse la donna che aveva protestato. - Allora va bene così. Che i russi facciano il più presto possibile». Il 21 luglio 1940 la Lituania fece domanda di annes- sione all)U.R.S.S. Io mi recai a Mosca con la loro delega- zione: a tutte le stazioni, il treno speciale veniva accolto da delegazioni con ghirlande di fiori. Alfinizio di agosto, il Soviet Supremo accoglieva tre nuove repubbliche: Esto- nia, Lettonia, Lituania. Il presidente lituano Paletskis di- chiarò: «La nostra via al socialismo e la più facile che si sia vista finora... Ci siamo arrivati con l°espressione della volontà del popolo lituano in forme costituzionali... Or- mai, non ci sono più frontiere da Kaunas a Vladivostok, dal Baltico all°Oceano Pacifico». Fu un capolavoro di azione politica organizzata da parte di Mosca, e realizzata dalla volontà del popolo lituano, che aveva sa- puto sollecitare.
 

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Ormai, l”U.R.S.S. era solidamente stabilita sul Baltico, pronta per ogni prova futura. La campagna di Hitler nei Balcani si prolungava. Le forze tedesche schiaccíarono i greci e ricacciarono in mare gli inglesi sbarcati nella Grecia meridionale. Il terrore tedesco indusse la Romania e la Bulgaria alla sottomissione, la jugoslavia, che op- pose resistenza, fu distrutta. Quando i tedeschi raggiunsero il confine turco, gli esperti predissero che la loro prossima mossa si sarebbefcompiuta attraverso i Dardanelli. Ma sulla Turchia ebbe effetto la pressione di Mosca, che veniva ad aggiungersi a quella inglese. Gli esperti predissero la caduta di Suez, e già si parlava di truppe tedesche in Siria: ma in realtà, esse si erano mosse nell” al- tra direzione: verso i confini dell”U.R.S.S. Hitler capiva che l”Unione Sovietica, pur come potenza neutrale, era l°ostacolo immediato sulla sua strada verso il do- minio del mondo. Nei ventidue mesi del patto di non aggres- sione, l”U.R.S.S. aveva bloccato per tre volte l”avanzata nazi- sta. La marcia sovietica in Polonia aveva fermato per un anno l°avanzata di Hitler verso l°est; il ritorno dei sovietici in Bes- sarabia lo aveva richiamato dal suo programma di invasione della Gran Bretagna; e la politica di potenza di Mosca nei Bal- cani e nel Baltico lo aveva trattenuto ai Dardanelli. Hitler capì che la solitaria forza neutrale dei sovietici lo aveva tenuto in scacco più di quanto non avessero fatto tutte le forze armate d°Europa combinate - polacchi, danesi, nor- vegesi, belgi, francesi, jugoslavi, greci e inglesi. Egli allora cam- biò fronte e colpì l°U.R.S.S. con l°aggressione più potente che si ricordi nella storia.

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VIII

La guerra di tutto il popolo  pagg. 159-175

 

Dalla prefazione di Adriana Chiaia

    Il capitolo “La guerra di tutto il popolo” si apre con la data del 22 giugno 1941, giorno in cui la Germania nazista sferrò l’attacco contro l°URSS con dovizia di truppe, carri armati e aerei da bombardamento. Come definire lo stile del racconto della Strong, attraverso i momenti più drammatici di un conflitto che doveva decidere delle sorti del mondo? Epico, emozionante. Una ricostruzione esemplare di una memoria troppo spesso dimenticata.

     Per ragioni di spazio siamo costretti a soffermarci sui punti più salienti. In primo luogo vogliamo sottolineare che la Strong fa giustizia in merito alla presunta “impreparazione” dell’esercito sovietico e allo smarrimento di Stalin di fronte all’attacco proditorio dei nazisti.

    A parte la preparazione strategica alla resistenza, approfittando al meglio dei ventidue mesi intercorsi dal patto di non aggressione, argomento già ampiamente illustrato nel capitolo precedente, la Strong - contraddicendo il rapporto Krusciov e, come vedremo in seguito, non solo su questo argomento - sottolinea che la resistenza accanita, opposta, fin dal primo momento, all’avanzata delle truppe naziste dall’Armata Rossa costituì un’inversione di tendenza nell’andamento della seconda guerra mondiale, capovolse l’atteggiamento dei paesi capitalisti nei confronti dell’Unione Sovietica, incoraggiò i movimenti clandestini della resistenza contro i nazisti che stavano sorgendo in Europa e convinse i governi in esilio delle nazioni occupate che se c’era una possibilità di ritorno, questa era nelle mani dell’Esercito e del popolo sovietico. L’autrice richiama, a proposito del valore in campo internazionale della resistenza sovietica, i concetti principali, espressi da Stalin, nel suo primo discorso del tempo di guerra trasmesso per radio. Egli affermò che in quella guerra la decisione non sarebbe venuta solo dalla forza delle armi, ma dall’allineamento politico del mondo.

    Malgrado che il nemico avesse invaso una parte importante del territorio sovietico, continuò Stalin nel suo discorso, era possibile fermarlo e respingerlo, poiché «gli eserciti invincibili non esistono». La strategia sovietica in risposta a quella nazista della “guerra lampo”, fu la guerra di tutto il popolo. Ma era anche una guerra combattuta nell’interesse internazionale dei popoli. Nelle parole di Stalin: «La guerra che conduciamo per la libertà del nostro paese verrà a far parte delle lotte dei popoli d’Europa e d’America per le libertà democratiche». E quella lotta sarebbe continuata: «fino alla vittoria».

    ll secondo elemento importante messo in luce dalla Strong è che i sovietici sconfissero l’invasore nazista anche a causa delle risorse umane che furono in grado di mettere in campo: una popolazione sana, grazie all’avanzato sistema sanitario; addestrata, grazie alla pratica sportiva di massa; preparata alla difesa, grazie alle strutture sociali nelle fabbriche e nei kolcos; organizzata, grazie all'abitudine di agire collettivamente. «I tedeschi non trovarono “cedevoli retrovie”. Essi trovarono i contadini delle fattorie collettive, organizzati come partigiani, collegati con l”esercito russo regolare».

   Un altro fattore della vittoria che l’autrice sottolinea con la consueta efficacia, è il tempestivo spostamento verso est, davanti all'incalzare dell’invasione nazista, dei macchinari e perfino dei raccolti di grano. Macchinari che viaggiavano verso la Siberia, e che venivano rimontati e messi in funzione in quelle terre lontane dagli stessi operai che li avevano scortati nel lungo viaggio. Raccolti di grano, frettolosamente portati a termine, con l'aiuto di tutte le forze disponibili, e trasportati anch’essi verso est, per costituire una preziosa riserva.

   Un altro aspetto, magistralmente descritto, è la difesa delle città assediate.

   Il blocco di Leningrado, con i suoi tragici risvolti di morti per fame, ma durante il quale non venne mai meno l’impegno eroico della popolazione nella difesa e perfino nella vita intellettuale che continuava. Come è noto (o anche questo episodio e stato cancellato dall'odio anticomunista?), durante quell'assedio, il grande musicista Sciostakovic, che prestava servizio nelle unità della contraerea, compose la sua setti- ma sinfonia, dedicata alla lotta e alla vittoria.

Come si legge nell’VIII capitolo “Gli esperti militari mondiali non condivisero, a quell’epoca, l’opinione che Kruscev avanzò nel '56 sull’impreparazione dell’Armata Rossa. Al contrario, essi uscirono in un coro di lodi piene di stupore”.  



  Anna Louise Strong L’era di Stalin


VIII

La guerra di tutto il popolo

 

 All’alba del 22 giugno 1941 Hitler colpì con un attacco di sorpresa l’Unione Sovietica. Migliaia di aerei tedeschi bombardarono gli aeroporti sovietici; migliaia di carri armati irruppero attraverso le frontiere, seguiti da milioni di uomini delle truppe motorizzate. «La più grande marcia militare nella storia del mondo», proclamò Hitler. Non aveva esagerato. Con quell’attacco le due più grandi armate del mondo erano ingaggiate nella lotta più decisiva del genere umano.

    I tedeschi venivano freschi dalla conquista dell'Europa. Per circa un anno erano andati gettando le basi della nuova impresa. Costruendo strade strategiche in Polonia, occupando la Romania, inviando truppe in Finlandia, si erano assicurati l’accesso a tutte le milleottocento miglia del confine occidentale sovietico, equivalente al confine canadese da Vancouver a Buffalo. Nel nord si dirigevano dalla Finlandia contro Leningrado e il porto artico di Murmansk; al centro dalla Polonia contro Mosca; al sud dalla Romania verso Kiev ed Odessa. Hitler proclamò che nove milioni di uomini erano ingaggiati attivamente nella battaglia; altri milioni attendevano come riserve.

   L’opinione a Berlino, Londra e Washington era che la resisten-za russa sarebbe stata schiantata nello spazio di un mese. Dopo quindici giorni Washington ammise cautamente: «I russi hanno opposto la più forte resistenza che i tedeschi abbiano incontrato finora». Dopo sei settimane l'America e la Gran Bretagna cominciarono a rivedere il loro giudizio sul conflitto. Wiston Churchill, ormai primo ministro, elogiò alla radio la “magnifica devozione” dei russi e rivelò l’efficienza della loro organizzazione militare.

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   Raymond Clapper telegrafò da Londra al World Telegram, il 20 agosto: «La Russia ha aperto un nuovo orizzonte per la vittoria. Mai prima d’ora Hitler si era visto opporre un’armata sufficiente e decisa ad affrontare il compito». Kruscev, nella sua critica a Stalin nel 1956, affermò che l’attacco tedesco prese di sorpresa Stalin, che non si era adeguatamente preparato, e che perfino quando le forze tedesche penetravano ormai nel territorio sovietico, Stalin rifiutò di arrendersi all’evidenza, parlando di «atti provocatori indisciplinati», e non diede l’ordine di combattere. Kruscev deve certo avere avuto buone ragioni. l tedeschi, senza dubbio, distrussero a terra molti aeroplani sovietici, come fecero i giapponesi con gli americani a Pearl Harbour: ogni aggressore ha di questi vantaggi. Ma l’Armata Rossa fu ben lungi dall’ignorare l’assalto di quel 22 giugno: la sua resistenza stupì il mondo. Se Stalin non aveva dato peso agli incidenti di frontiera avvenuti fino a quel giorno, le ragioni che lo muovevano sfuggono ora, si direbbe, a Kruscev. In questa guerra la decisione non sarebbe venuta solo dalla forza delle armi, ma dal’allineamento politico del mondo.

    Stalin sottolineò questo fatto nel suo primo discorso radio del tempo di guerra, due settimane dopo l’inizio dell'invasione tedesca. In quel discorso, egli disse al popolo sovietico che il nemico si era impadronito di considerevoli porzioni di territorio; lasciò intendere che ne avrebbe preso altro: ma, dichiarò, questo non era una scusa per lasciarsi prendere dal panico. «Gli eserciti invincibili non esistono e non sono mai esistiti››. La Germania aveva conquistato un importante vantaggio militare col suo attacco di sorpresa: ma «aveva perduto politicamente, esponendosi di fronte al mondo... come un aggressore assetato di sangue». La controstrategia sovietica doveva essere «una guerra di tutto il popolo››. L’armata doveva «combattere per ogni metro di terra sovietica», ma «nei casi in cui si era costretti a ritirarsi», tutto ciò che poteva avere un valore qualunque doveva essere evacuato o distrutto. Stalin promise ai combattenti leali alleati “dei popoli d’Europa e d’America”. «La guerra che conduciamo per la libertà del nostro

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paese verrà a far parte delle lotte dei popoli d’Europa e d’America per le libertà democratiche». A tutti, egli si rivolse chiamandolo, non solo alla resistenza, ma «in avanti verso la vittoria».

    Per più di venti anni il popolo sovietico si era preparato a questo attacco; ma esso assunse un aspetto diverso da quello che i sovietici avevano temuto di più. Essi avevano temuto un attacco simultaneo da parte di tutte le nazioni capitalistiche della terra: avevano temuto che si sarebbe formato un fronte mondiale contro l’U.R.S.S. Questo sarebbe potuto accadere se essi avessero combattuto in Polonia due anni prima, quando Chamberlain era in carica. Quasi sicuramente sarebbe accaduto se la guerra finnica si fosse protratta fino all’arrivo di una spedizione anglo-francese; sarebbe stato ancora possibile se i russi avessero attaccato Hitler durante la sua campagna nei Balcani, come un diplomatico inglese mi disse che essi avrebbero dovuto fare «prima che Hitler si rafforzasse con le sue vittorie».

   Stalin considerava la cosa in modo diverso. Egli vedeva, senza dubbio, che nei ventidue mesi del patto di non aggressione Hitler si era impadronito delle ricchezze e delle armi dell’Eur0pa, ma questi mesi avevano anche mostrato ai popoli d’Europa e del mondo la natura del dominio nazista. Quando ebbero inizio le conquiste di Hitler, alcuni settori delle classi più elevate in Europa lo sostennero. Perfino molta gente comune tentò di adeguarsi al “nuovo ordine” tedesco, sperando nel’unificazione dell’Europa. Due anni erano bastati per dimostrare che i nazisti non portavano gli “Stati uniti d’Europa” ma uno schiavismo totale e fame per tutti eccetto che per la “razza germanica dominante”. Milioni di ebrei e slavi stavano morendo nei campi di concentramento. L’odio che andava maturando in Europa contò, quando si formò il fronte mondiale. Contò il serio impegno dell’America a servire quale arsenale contro Hitler. E, come Stalin aveva detto, anche la sfrontata aggressione dell’attacco di sorpresa contro l’U.R.S.S. contò nel decidere l’allineamento politico del mondo. Il primo segno del nuovo schieramento del mondo si ebbe quando l’appello di Hitler per una «santa crociata contro il bolscevismo» fece fiasco. Molta gente pensava che il Papa Pio XII

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avrebbe messo al bando i bolscevichi. Egli non lo fece. Altri pensarono che Churchill, quel vecchio nemico del bolscevismo, avrebbe cercato la neutralità. Ma Churchill proclamò il suo appoggio ai russi in parole suonanti: «Chiunque combatte contro il nazismo avrà il nostro appoggio. Il pericolo che sovrasta la Russia è il nostro stesso pericolo». Nel corso della quarta settimana la Gran Bretagna firmò un'alleanza con l’U.R.S.S.; il suo esempio fu seguito rapidamente dai vari “Governi in esilio” d’Europa, che avevano trovato rifugio a Londra e che ora per la prima volta vedevano una possibilità di tornare un giorno in patria.

    «In sei settimane, la resistenza della Russia ha cambiato le prospettive politiche di Londra, di Washington e dell’Europa in esilio» scriveva Anne O’Hare McCormick sul New York Times. Essa mutò anche le prospettive e le speranze dell’Europa in prigione, affrettò i movimenti di resistenza nell’Europa clandestina. Nell’autunno del 1941 il campo di battaglia dell’Europa clandestina divenne importante; la resistenza russa a Hitler e l’alleanza con i vari Governi in esilio aveva raccolto tutti gli anti-nazisti d'Europa - dai comunisti ai monarchici - nella Resistenza. Ma se si tiene a mente la potenza delle forze antisovietiche in America, in Inghilterra e nel continente europeo; -se si pensa che nei primi giorni della lotta il senatore Harry Truman poté dichiarare: «Se i tedeschi vincono, dobbiamo aiutare i russi, e se i russi vincono dobbiamo aiutare i tedeschi: in questo modo, li lasceremo ammazzarsi a vicenda nel maggior numero possibile››1, allora la lentezza di Stalin nel combattere finché l’attacco di sorpresa di Hitler non aveva già potuto penetrare profondamente nel territorio russo, non sembrerà più stupidità o negligenza.

   Gli esperti militari mondiali non condivisero, a quell’epoca, l’opinione che Kruscev avanzò nel '56 sull’impreparazione dell’Armata Rossa. Al contrario, essi uscirono in un coro di lodi piene di stupore.  

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Dichiarazione pubblicata nel New York Times del 24 giugno 1941

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«Per la prima volta i tedeschi sono stati affrontati da un esercito addestrato non per la guerra del 1918, ma per la guerra del 1941», scrisse George Fielding Eliot il 29 luglio 1941. Egli rivelò che l”U.R.S.S. usava «posizioni difensive di grande profondità, saldamente tenute ovunque, camuffamenti di notevole abilita a protezione della artiglieria russa dagli attacchi aerei, unità mobili di contrattacco contro le colonne dei panzer tedeschi ed una aviazione che sostiene completamente le truppe a terra››. «É un esercito moderno nella struttura, tatticamente efficiente, strategicamente realistico››, scrisse Max Werner sul New Republic  l’11 agosto.

   Gli esperti rimasero particolarmente sorpresi per l’equipaggiamento moderno dell’Armata Rossa. Si ebbe notizia di grandi battaglie di carri armati; si rivelò che i russi avevano dei robusti carri armati che spesso schiacciavano o rovesciavano i carri tedeschi in collisioni frontali. «Come può accadere - mi chiese un editore di New York, - che quei contadini russi, che non sapevano guidare un trattore se gliene davate uno, e lo lasciavano arrugginire sui campi, ora si presentano con migliaia di carri armati manovrati con perizia?››. Gli dissi che si trattava del piano quinquennale. Ma il mondo restò sorpreso quando Mosca ammise che dopo nove settimane di guerra le sue perdite ammontavano a 7.500 cannoni, 4.500 aerei e 5.000 carri armati. Un esercito che poteva ancora continuare a combattere dopo tali perdite doveva avere il più grande, o almeno il secondo, in ordine di potenza, dei rifornimenti del mondo.

   Col proseguire della guerra gli osservatori militari dichiararono che i russi avevano «trovato un antidoto alla guerra lampo», la tattica cui si affidava Hitler. Il metodo tedesco contemplava la penetrazione nelle linee nemiche con una massiccia invasione di carri armati e di aerei, seguita dallo sparpagliarsi a ventaglio di colonne corazzate nelle cedevoli retrovie, privando così il fronte dei suoi sostegni dall’interno. Questo metodo aveva permesso la conquista rapida di ogni paese contro il quale era stato provato. «La carne umana non può sopportarlo», mi disse un corrispondente americano a Berli-

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no. I russi lo affrontarono in due modi, entrambi richiedenti un morale superbo. Quando i carri armati tedeschi irrompevano, la fanteria russa si schierava di nuovo tra i carri armati e la fanteria tedesca che arrivava a sostegno. Questo creava un fronte caotico, dove sia i tedeschi che i russi combattevano in ogni direzione. I russi poterono contare sull’aiuto della popolazione. I tedeschi non trovarono “cedevoli retrovie”. Essi trovarono i contadini delle fattorie collettive, organizzati come partigiani, collegati con l’esercito russo regolare.

    La guerra lampo, su cui contava Hitler per una rapida vittoria, fallì perciò nell’intento di provocare il collasso russo. Hitler fu costretto ad una guerra più lunga, che l’economia tedesca poteva mal sopportare. «Per la prima volta, Hitler sta combattendo in una nuova dimensione» diceva un articolo di fondo del New York Times. Il giornalista alludeva alla geografia, ma la “nuova dimensione” era più che geografica. Per la prima volta Hitler stava combattendo una intera popolazione, organizzata per la difesa totale. Nella tattica sovietica erano coordinate le azioni dell’esercito e della popolazione.  «Il fronte non è solo dove ruggisce il cannone - era lo slogan - Il fronte é in ogni posto di lavoro, in ogni   fattoria».

   L’enorme potenziale umano della Russia era stato ammesso da tutti. Ma pochi si erano resi conto di come fosse mutata la qualità di questo potenziale umano. La medicina socializzata, l’assistenza alle madri e ai bambini al momento del parto, l’educazione fisica e gli sport fra i giovani avevano migliorato la salute della nazione. Le statistiche dell’esercito avevano rivelato costanti aumenti nell’altezza, nel peso e nell’ampiezza toracica. Anche l’istruzione e l’addestramento militare delle reclute erano stati migliorati di anno in anno. Milioni di donne addestrare presero parte alla difesa; il servizio sanitario dell'esercito ne era pieno, come lo erano le comunicazioni, i rifornimenti e i reparti tecnici. I civili si erano preparati fisicamente a cooperare con l’esercito. Sei milioni di persone avevano superato le prove che davano diritto al distinti  G.T.O. - «pronto per il lavoro e la difesa» - e richiedeva-

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no completa abilità nella marcia, nella corsa, nel nuoto, nel salto, nel remo, nello sci. Molti avevano seguito dei corsi liberi di paracadutismo e anche i bambini amavano lanciarsi dalle “torri paracadute” nei parchi di riposo e di cultura. Il sistema della fattoria collettiva si adattava mirabilmente alle necessità della difesa. Ogni fattoria aveva le sue brigate di lavoro con i suoi dirigenti; queste potevano agire come   battaglioni di lavoro per l’esercito anche portandosi dietro i propri cucinieri e il proprio equipaggiamento di cucina. Ogni fattoria aveva il suo asilo nido estivo, affidato alle madri più anziane sotto la direzione di nurses diplomate; questa organizzazione poteva raccogliere i bambini in gruppi ed evacuarli all'interno, servendosi dei camion che tornavano dopo aver portato al fronte le truppe. Ogni fattoria aveva il suo gruppo di difesa civile che aveva imparato a sparare ed era armato: ecco una banda di partigiani già organizzata.

   Quando i tedeschi penetrarono in Ucraina, cominciò una gara per il raccolto del grano. Il primo compito dei contadini fu appunto di salvare questo grano. Maestri, studenti, impiegati andarono nelle fattorie per aiutare; anche l’esercito aiutò per il raccolto nelle tregue tra una battaglia e l’altra. Il 10 settembre, quando i tedeschi raggiunsero il cuore dell’Ucraina, il 60 per cento del grano era stato trasferito ad oriente. Allora milioni di contadini si spostarono anch’essi verso l'est, guidando i loro camion e i trattori, o ritornando su treni militari. Non erano senza lavoro, come i profughi in Europa. Essi recavano con sé i propri attrezzi e trovavano lavoro da qual- che altra parte incrementando così le scorte di viveri. Alcuni contadini, per scelta o per necessità, rimasero nella zona occupata dai tedeschi; divennero combattenti irregolari, che colpivano i tedeschi alle spalle.

    La distruzione della grande diga sul Dnepr impressionò il mondo, che si rese conto che i russi prendevano questa guerra molto più sul serio di quanto non avessero fatto altre nazioni. Ma essa era solo un incidente naturale nella strategia che la stampa occidentale chiamò immediatamente «strategia

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della terra bruciata››. I russi non usavano questa espressione fatalistica. Essi non avevano alcun interesse a “bruciare” alcunché, ma avevano invece interesse a salvare i beni per se stessi e a portarli via al nemico. In ogni stabilimento industriale, appena il nemico si avvicinava, gli operai si organizzavano in gruppi per smontare il macchinario, ungerlo, imballarlo e spedirlo ad est. Gli operai andavano ad est con i loro macchinari e rimettevano in piedi gli stabilimenti nelle zone loro assegnate in Siberia o negli Urali.

   Quando la città di Karkhov venne occupata dai tedeschi, la fabbrica di trattori Karkhov fu orgogliosa per il fatto di non avere mai smesso, neppure per un giorno, di fabbricare carri armati contro Hitler. La maggior parte degli operai si trasferì ad est con il macchinario, ma un certo numero di operai rimase a Karkhov per mettere insieme le parti già costruite, e guidare gli ultimi carri armati contro il nemico. Prima che la produzione venisse fermata a Karkhov, la fabbrica stava di nuovo producendo nell’est.

     Come questa strategia esaurisse le forze della Germania è detto da Howard K. Smith nel suo libro L’ultimo treno da Berlino. La macchina da guerra si era irrobustita con il bottino fatto in Europa; ma i tedeschi stavano morendo di fame quando Hitler penetrò in Russia. Le truppe tedesche arrivarono al Dnepr e furono felici di vedere al di la delle rovine della diga le massicce costruzioni delle grandi industrie sul Dnepr, i primi stabilimenti che essi avessero visto intatti nell’U.R.S.S., dice Smith. Ma quando raggiunsero le costruzioni, si accorsero che ogni macchina, fino all’ultima chiave e all’ultimo dado erano state trasferite ad est. «Questa era difesa›› dice Smith.

    «Io fui atterrito quando vidi dall’alto quelle enormi masse di gente al lavoro» disse un pilota tedesco a Mosca dopo essere stato fatto prigioniero. Egli era stato utilizzato per seminare il terrore fra la popolazione in fuga. Era stato invece egli stesso preso dal terrore alla vista della gente fiduciosa al lavoro, organizzata attorno all’esercito, a scavare fortificazioni per la propria terra.

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   Alcuni anni prima, quando gli esperti militari inglesi e francesi ancora pensavano nei termini della guerra di trincea del ‘14-18, le pubblicazioni dell’Armata Rossa avevano previsto la strategia della guerra lampo, e predetto che essa avrebbe rapidamente schiacciato un nemico debole, con pochi pericoli per l’aggressore: ma, se essa avesse visto di fronte due potenze di uguale forza, e se il blitz non avesse portato subito a una conclusione, il risultato sarebbe stato una guerra lunga, nella quale la decisione sarebbe dipesa dalle rispettive risorse economiche dei contendenti, dalle riserve e dal morale del popolo. Questa era la prova che stava di fronte ai tedeschi e ai russi.

    Nel 'novembre del 1941 i tedeschi occupavano ormai la ricca Ucraina e avevano saccheggiato Kiev; stavano assediando Leningrado, la fortezza del nord; si trovavano alla periferia di Mosca, su tre lati della città, già in vista delle sue alte torri. Cominciò la battaglia per le grandi città.

    In genere, non si pensa che le città moderne debbano preoccuparsi della propria difesa. In molti paesi i civili non ritengono di dover combattere. Parigi venne dichiarata “città aperta” e i tedeschi, una volta sconfitto l’esercito francese, entrarono tranquillamente in Parigi. Quando il sindaco di Varsavia organizzò l’eroica difesa della città dopo la fuga del Governo e dello Stato Maggiore, il mondo fu stupito; si era dimenticato quanto le città del medioevo fossero state formidabili nella loro difesa. Ma Stalin non aveva dimenticato quegli antichi esempi: egli aveva condotto la guerra di Finlandia proprio per fare di Leningrado una fortezza ben difendibile. A Mosca, nel costruire le nuove abitazioni, egli aveva edificato, senza chiasso anche, la città-fortezza più solida del mondo moderno. Mosca era stata una fortezza nel medioevo. Le mura del Cremlino ne erano il centro; un miglio più in la essa era circondata da una muraglia di pietra, due miglia più in là era circondata da una serie di terrapieni. La muraglia e i bastioni da molto tempo erano divenuti due raccordi anulari. Dieci strade principali si dipartono da Mosca come raggi di una ruota; esse sono collegate da questi due anelli. Undici ferrovie si

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   dipartono dalla città, anch’esse collegate da una ferrovia circolare. Durante i piani quinquennali lungo questi boulevard; e queste grandi arterie erano state costruite case di quattro piani, solide, particolarmente robuste per sopportare l’inverno russo. I raccordi anulari vennero ampliati trapiantando gli alberi nel terreno retrostante e nei parchi. Gli amanti del bello si lamentarono. Quando scoppiò la guerra, Mosca scoprì che carri armati e truppe motorizzate potevano manovrare su sei colonne a sessanta chilometri orari in qualunque punto della città e sfrecciare in qualunque direzione senza alcun ingorgo di traffico, protetti ovunque da solide cerchie di massicce case d’abitazione alte quattro piani. Una fortezza moderna non è fatta di sole mura: la caduta delle linee Maginot e Mannerheim lo ha provato. Una fortezza moderna deve consentire possibilità di movimento a grandi forze, proteggendole nello stesso tempo. Questo è quello che offrì Mosca. Tutti i rifornimenti di guerra venivano effettuati all’interno della città, dato che la centrale elettrica era impiantata su depositi di lignite dietro la città stessa. La difesa aerea era impiantata su campi all'interno della città e verso est.

   Mosca divenne il fronte; il suo popolo si adattò ad una dieta di 1.600 calorie. Non vi era carbone per le case e le scuole; il carbone serviva per le industrie di guerra. Non vi era luce elettrica nelle case durante le lunghe notti d’inverno che cominciavano alle quattro del pomeriggio; l’elettricità serviva per le munizioni. La gente tornava a casa dopo dodici ore di lavoro e inciampava nel letto al buio, si gettava le coperte addosso sui vestiti. Durante le settimane più pericolose, una delle mie amiche, che lavorava alla radio di Mosca, trasportò il suo letto all’ufficio e lavorò ventiquattro ore al giorno, sostituendo due uomini che erano andati a scavare fortificazioni fuori della città.

  Stalin rimase a Mosca. Il 7 novembre 1941, mentre cannoni tedeschi rombavano nei sobborghi e Hitler annunciava che Mosca era già stata presa, Stalin passò in rivista le truppe sulla Piazza Rossa. Questo diede fiducia ai cittadini di Mosca; disse loro che erano il cardine della difesa del paese. Mo-

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sca respinse indietro i tedeschi di sessanta miglia, quell’inverno; e li trattenne, a quel punto.    
    Per Leningrado fu più dura; la città rimase assediata e sotto il fuoco nemico per due anni e mezzo. Per un certo periodo i cittadini vissero solo di cinque fette di pane nero e di due bicchieri di acqua calda al giorno. Con queste sussistenze costruivano munizioni e combattevano i tedeschi. A Leningrado morì più gente di fame che per i proiettili tedeschi: morirono per mancanza di proteine, ma non per lo scorbuto che era la piaga delle città medioevali assediate; gli scienziati sovietici insegnarono a ricavare la vitamina C dagli aghi di pino dei parchi. Il famoso compositore Sciostakovic faceva parte della milizia contraerea; buttava le bombe incendiarie tedesche giù dai tetti, quando i tedeschi le lanciavano. Negli intervalli egli compose la sua settima sinfonia, dedicata alla lotta e alla vittoria. Tutti coloro che sopportarono quell’assedio vennero insigniti di una medaglia con la dicitura «Difesa di Leningrado».

   Nel secondo anno di guerra, l’avanzata dei tedeschi nell'U.R.S.S. raggiunse il suo limite più lontano. Nel nord, essi erano trattenuti da Leningrado, al centro da Mosca, ma nel sud penetrarono in pianure aride e scoperte fino ai campi di grano del Caucaso settentrionale e fino alla città di Stalingrado. Questa città si trova in una pianura senza difese naturali; è formata da cinquanta chilometri di fabbriche, una dietro l’altra lungo il Volga. Stalingrado divenne il pilastro meridionale della difesa sovietica, come Leningrado lo era al nord.

   «Prendete Stalingrado ad ogni costo», ordinò Hitler nell’estate del 1942. La caduta di Stalingrado avrebbe aperto la strada per accerchiare Mosca dal sud; avrebbe eliminato gli ostacoli sulla via del petrolio di Baku, e fino all’Iran e all’lndia, sarebbe servita a ricongiungersi con i giapponesi nel Turkestan cinese. Giorno per giorno, un migliaio di aerei e un migliaio di carri armati colpivano solo questa città. Verso la metà di settembre divennero 2.000 aerei e 2.000 carri armati. I tedeschi divisero dapprima Stalingrado in due, poi in una dozzina di settori. Per più di una volta Hitler annunciò di averla presa. Veramente ne aveva presa la maggior parte: ma non aveva vinto i suoi difensori.

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   «Non vi è più terra al di là del Volga», correva la voce in Stalingrado. Si combatteva di strada in strada, di casa in casa, di stanza in stanza. Si usarono fucili, granate, coltelli, sedie di cucina, acqua bollente. La fabbrica di carri armati continuò a produrre carri armati e a lanciarli contro il nemico direttamente dal cortile dello stabilimento. «Non una casa è rimasta intatta» diceva il bollettino tedesco. Allora il popolo combatté dalle cantine e dalle grotte. «Ogni mucchio di macerie può costituire una fortezza, se vi è abbastanza coraggio», fu il nuovo slogan. «Ogni mucchio riconquistato ci fa guadagnare tempo» fu il messaggio di Stalin. La gente di Stalingrado combatte così per centottantadue giorni. Poi, riserve fresche, organizzate ed addestrare nella lontana Siberia, si diressero sulle pianure e presero la città in una grande tenaglia. Più di 300.000 tedeschi vennero presi in trappola. Si arresero il 2 febbraio 1943.

   Qui il lungo fronte della guerra mondiale giunse alla svolta suprema e cominciò a ritirarsi. Sugli uomini e le donne di Stalingrado si infranse l’ondata dell’attacco tedesco per soggiogare il mondo.

  Dopo di allora, dovevano venire ancora più di due anni di battaglie, duri e tormentosi. Ma da Stalingrado in poi, i tedeschi furono ricacciati sempre più indietro. All’inizio dell’estate del 1944, venivano respinti al di la delle frontiere sovietiche. Verso la fine di luglio, le armate sovietiche combattevano i tedeschi sotto Varsavia. Nell’aprile del 1945, l’Armata Rossa entrò a Berlino. In giugno, a San Francisco, veniva fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite, per gettare le basi del mondo del dopoguerra.

   Nell’Unione Sovietica, la popolazione cominciò a tornare nelle terre che i tedeschi avevano devastato. Trovò una distruzione totale, come non si era vista dai tempi di Gengis Khan. I tedeschi, battuti sul fronte, seminavano il massacro su quei civili che avevano bloccato la loro conquista del mondo: assassinarono milioni di persone colla tortura e nelle camere a gas; gettarono uomini nei cunicoli di miniere allagate, li bruciarono dentro case incendiate. Scovarono e uccisero tutto il

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bestiame, portando via tre milioni di persone come schiavi. Venticinque milioni di persone rimasero senza tetto nelle distese della Russia meridionale e

dell’Ucraina.

    Un’azione sovietica di quel tempo va ricordata, sebbene non sia ancora spiegata completamente. Durante la guerra, sette intere piccole nazioni furono deportate verso l’est, senza nessun annuncio ufficiale. Noi corrispondenti a Mosca ne sentimmo parlare vagamente, ma quando cercammo di sapere di più, ci si disse che agenti tedeschi e turchi avevano corrotto la lealtà dei tedeschi del Volga e delle nazionalità musulmane della Crimea e del Caucaso; il resto era segreto militare. Solo nel 1956, quando fu diffuso il rapporto di Kruscev contro Stalin, il mondo seppe ufficialmente che i calmichi e i caracai erano stati trasportati in oriente nel ‘43, e così i ceceni, gli ingusci e i balcari all’inizio del ‘44. Kruscev non fece menzione dei tedeschi del Volga e dei tartari della Crimea, che furono deportati nel 1942; inoltre, non fornì alcuna spiegazione della cosa. Si può osservare, tuttavia, che proprio in quel periodo, all’inizio del 1944, Stalin annunciò in nome del Governo sovietico che le sedici Repubbliche federate avrebbero potuto avere da allora in poi armate e ministeri degli Esteri autonomi: avevano combattuto tanto bene unite che nulla stava più a impedire che ottenessero anche quest’ultimo segno della dignità di nazione. D’altra parte, è chiaro, qualche riaggiustamento geografico dei confini nazionali venne effettuato nel mezzo del gran sommovimento della guerra. In qual misura esso ebbe carattere punitivo, in quale persecutorio, fino a qual punto si approfitto della contingenza bellica per operare una distribuzione più razionale della popolazione, rimane ancora oscuro.

    Non posso finire questo capitolo senza un accenno alle armate sovietiche, come le vidi passare rapidamente attraverso la Polonia per prendere Berlino. Io seguivo la lotta da città dietro le linee, Varsavia e Lodz. Era l’esercito più forte del mondo, il quale respingeva indietro i tedeschi che tre anni prima erano stati l’esercito più forte. Tre anni spietati avevano forgiato i russi. Diversamente dai tedeschi, essi possedeva-

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no le qualità che quella “nuova"gente” aveva sviluppato anni prima: una larga iniziativa individuale inseparabilmente tessuta con una forza collettiva. Non sono una partigiana della guerra, ma potrei solo paragonare ad una grande sinfonia l’accurata armonia con la quale essi si muovevano.

   Nel tardo autunno del 1944, si attestarono sulla Vistola, di fronte a Varsavia. Ad occidente del fiume si trovavano estese paludi che non avrebbero sostenuto i carri armati. La grande offensiva attese il gelo. La prima armata polacca, reclutata tra i polacchi profughi in U.R.S.S., teneva il centro, di fronte alla capitale distrutta che i tedeschi andavano metodicamente demolendo e incendiando, isolato per isolato. Un ufficiale polacco mi disse che l’armata aveva un pezzo di artiglieria pesante ogni due metri per abbattere i forti tedeschi e preparare l’invasione.

    Il 12 gennaio, venerdì, la prima armata ucraina del maresciallo Koniev cominciò a colpire dal sud della Polonia, infranse nove schieramenti di forze e nello spazio di due giorni compì un’avanzata di quaranta chilometri. La domenica due nuove armate si diressero ad occidente e vennero ingaggiate nell’azione. La prima armata bielorussa del maresciallo Zukov, che comprendeva la prima armata polacca, si diresse verso il centro, occupando 1.200 centri abitati in due giorni. La seconda armata bielorussa del maresciallo Rokossovsky si gettò sul nord, sulle paludi gelate nel punto in cui il fiume Narev si unisce alla Vistola. Dopo l’apertura della falla, le truppe d’assalto corazzate avanzarono rapidamente; i carri armati di Zukov coprirono centodieci chilometri in una sola memorabile giornata. Brigate di ferrovieri mutavano lo scartamento dei binari della ferrovia da est ad ovest man mano che si avanzava; i rifornimenti arrivavano così direttamente dagli Urali, a duemila miglia dal fronte. I’interrotto afflusso di proiettili e di carburante stupì gli esperti militari del mondo.   Anche ad una civile come ero io, che osservava tutto questo sulla carta geografica, non poteva sfuggire il ritmo superbo con il quale queste grosse armate circondavano le città,

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prendendole sempre dalla parte da cui non si sospettava potessero arrivare, e sempre appoggiandosi una sull’altra proprio per quell’aiuto di cui avevano bisogno. Zukov prende Varsavia con un attacco triplice, dal nord, dal sud e da occidente, da tutte le direzioni meno da quella che ci si poteva aspettare, da oriente. L’armata di Koniev si buttò direttamente attraverso il sud della Polonia, girò attorno ad una città fortificata sulla frontiera tedesca e penetrò dalla direzione di Berlino. Gli stabilimenti del ghetto erano ancora in attività. I sovietici salvarono così ottomila ebrei, il contingente più grosso che sia stato salvato in Polonia, perché la pratica tedesca era di uccidere gli ebrei e i prigionieri slavi prima della ritirata. Uno schieramento a pettine dell’armata di Koniev si inoltrò nell’interno fino a Cracovia, prendendola in un modo così insospettato e senza alcun danno che sembrò come una città che non avesse mai visto la guerra. Anche Lodz fu presa da Zukov dalla “direzione sbagliata”, senza distruzioni, con una sola azione. Quando mi recai a Lodz con il Governo polacco, subito dopo, trovai le valigie di un ufficiale tedesco nell’armadio nella mia camera in albergo.

   Prigionieri di guerra americani, liberati dall’avanzata russa e che filtravano attraverso la Polonia sulla via del ritorno, mi raccontarono a Lodz particolari che li avevano colpiti. Erano messi in imbarazzo dall’iniziativa russa che, accanto ai metodi normali, usava anche ogni sorta di espedienti. Il carburante non veniva trasportato solo con normali autocisterne, ma i russi dissotterravano cisterne sotterranee e le legavano su carri senza sponde per trasportarle. Dato che i trasporti ferroviari erano necessari per le truppe d’assalto corazzate, la fanteria utilizzava molti cavalli. Gli americani videro la fanteria avanzare su piccoli carri agricoli sui quali due uomini dormivano mentre gli altri guidavano, andando così avanti ventiquattro ore al giorno. Quando i cavalli non ce la facevano più, venivano convogliati verso il cortile di qualche fattoria e sostituiti con cavalli freschi. Il risultato fu di raccogliere tutti i cavalli polacchi nelle province occidentali; uno dei primi compiti del nuovo Governo polacco fu di recuperare i cavalli

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per la semina di primavera nella Polonia centrale. «Abbiamo appreso un sacco di cose sulla guerra››, dicevano gli americani. Il compito affidato alla prima armata polacca mostrò il senso politico del comando supremo sovietico. I polacchi ebbero l’onore di prendere Varsavia; essendo la loro forza numerica inadeguata al compito, i russi di Zukov circondarono la città a venticinque miglia di distanza e tagliarono le comunicazioni tedesche, mentre la prima armata polacca investiva la città da sola. I polacchi formarono la testa di ponte che irruppe nella Pomerania e occupò la base di Kolberg; i polacchi e i russi insieme presero Danzica, ma i polacchi ebbero il compito di occupare il centro della città e innalzare una bandiera polacca sul palazzo del Comune. Queste vittorie avevano per i polacchi un significato storico, perché i tedeschi e i polacchi si sono contesi quello sbocco sul mare per un migliaio di anni. Nel frattempo la seconda armata polacca, recentemente reclutata nella Polonia liberata, si trasferì dai campi di addestramento ai servizi di guarnigione in tutte le grandi città polacche, che dal momento della liberazione erano state assegnate alla Polonia. Due mesi dopo la seconda armata polacca coadiuvò nel’irruzione sul Niesse e si trovò fra le prime truppe di Zukov a Berlino. Era nel loro diritto: la guerra era cominciata con l’aggressione di Hitler contro il loro paese.

   Questa grande marcia liberò la Polonia occidentale così rapidamente e in un modo tale che i tedeschi riuscirono a distruggere ben poco. La grande eccezione fu Varsavia; qui la rivolta del generale Bor messa in atto prematuramente e senza essere coordinata con l'avanzata russa dell’estate precedente, aveva provoca- to la distruzione completa della capitale polacca, prima che cominciasse l’avanzata ora descritta. Quando Varsavia venne liberata, la gente cominciò a tornare alle proprie case da ogni dove. Trovarono solo mucchi di pietre, tutte le vie erano bloccate da case distrutte. Il Municipio e il Teatro dell’Opera erano solo ruderi contro il cielo. Le belle cattedrali, i palazzi, i monumenti di Chopin e Copernico, non erano più che rovine e ricordo. Non c’era acqua, né elettricità, né gas; le cantine e le fognature erano

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piene di cadaveri. Il 19 gennaio, due giorni dopo la liberazione della città, il presidente Bierut passò in rivista l’esercito polacco in mezzo alle macerie, annunciò il proposito di ricostruire Varsavia per rifarne la capitale e si appellò all’aiuto di tutti i polacchi. Parecchie migliaia di persone erano già tornate e vivevano nelle cantine: si riunirono, plaudenti, attorno alla tribuna. Da qualche parte, in mezzo a quelle squallide rovine, si era riusciti a mettere insieme un mazzo di fiori e una bimba loffrì a Bierut.

    L’avanzata che, sotto i miei occhi, aveva liberato la Polonia, si fermò sull’Oder, stabilì teste di ponte e sistemò i rifornimenti per l’assalto a Berlino, che cominciò il 18 aprile.

    «Nessuno di quelli che vi assistettero dimenticherà mai quell’alba sull’Oder - scrisse sull’Izvestia Karmen, il fotoreporter sovietico: - al boato di migliaia di cannoni l’intera terra sovietica si mosse alla volta della capitale nemica su varie direttrici». Altri reporter notarono che ai lati delle strade vi erano ciliegi in fiore e betulle ondeggianti; e che i polacchi andarono sulle rive dell’Oder a brindare con l’acqua del fiume. Sei giorni dopo l’artiglieria dell’Armata Rossa puntava il suo tiro sulla Friedrichstrasse. Karmen notò l'ora: erano le otto e trenta del 22 aprile 1945. Tutti gli scrittori sovietici fanno menzione delle moltitudini di schiavi polacchi, russi e jugoslavi che uscivano come una fiumana dalle fabbriche tedesche. Spesso le truppe sloggiavano il nemico lentamente per evitare di uccidere i propri compatrioti. Un caso tipico fu quello di quei tedeschi che sparavano dal tetto di una grande fabbrica di seta per paracadute. Improvvisamente una folla di donne russe venne fuori correndo dalla fabbrica verso la libertà e saltò al collo delle truppe che sopraggiungevano. Una vecchia andava chiedendo: «Miei piccoli cari, quale è la strada per Orel?››. I soldati sorridevano. «Vi ci manderemo, nonna». La presero e la collocarono su un camion per le retrovie.

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   IX

La seconda ricostruzione  pagg.177-192

 

Nell’ultima settimana di aprile del 1945 tornò in voga a Mosca una canzone popolare che era sempre stata considerata troppo sdolcinata: «Quando le luci si riaccendono in tutto il mondo››. La realtà superò la canzone. L’oscuramento fu abolito il 30 aprile per preparare i festeggiamenti del 1° maggio. La gente si riversò nelle strade e andò di piazza in piazza ammirando i globi luminosi che non si erano più visti da quattro anni. Ci fu chi passeggiò nelle strade per tutta la notte, per dimostrare a se stesso e agli altri che il coprifuoco era finito. Ognuno lasciò le persiane spalancate, senza preoccuparsi se si poteva esser visti dal di fuori a mangiare e vestirsi.

    Alla dimostrazione del primo maggio la gente parlava dell’ultima volta in cui una parata aveva avuto luogo nella Piazza Rossa, il 7 novembre 1941, quando i cannoni tedeschi tuonavano nei sobborghi di Mosca e Stalin aveva dato fiducia al popolo passando in rassegna le truppe nella piazza. Adesso, l’Armata Rossa combatteva alla periferia di Berlino e Mosca si era tolta di dosso l’abito di guerra e si era messa l’abito del primo maggio: bandiere rosse, drappi, ritratti di dirigenti. Le enormi stelle color rubino splendevano di nuovo nella notte sul Cremlino; ghirlande di luce disegnavano di nuovo le strade e i ponti della Moscova.

   A Berlino il “cessate il fuoco” fu dato alle 15 del 2 maggio. La notizia raggiunse Mosca di prima sera, segnando il culmine dei due giorni di festa. La roccaforte del nazifascismo era caduta, dall’est all'ovest le armate delle Nazioni Unite - russe, americane, britanniche - invadevano la terra. Le salve colorate dei razzi

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solcarono i cieli di Mosca, e a loro risposero i fuochi per le strade. La gente andò a letto esausta e felice sapendo che al suo risveglio si sarebbe trovata di fronte i problemi di una nuova epoca: rimediare alle devastazioni, costruire la pace.

    La devastazione era grande. Venticinque milioni di persone erano senza casa; oltre millesettecento città e ventisettemila villaggi erano distrutti in gran parte o del tutto. Circa 65.000 chilometri di binari erano stati divelti, molto di più di una ferrovia che facesse tutto il giro dell'Equatore. Il novanta per cento delle miniere del Donbass erano devastate e allagate. Non esistevano più né la diga del Dnepr né le industrie tutt'intorno; nel fiume erano tornate a formarsi le rapide e la navigazione era cessata. Sette milioni di cavalli, diciassette milioni di capi di bestiame, venti milioni di maiali erano stati uccisi o portati via. Più di tremila stabilimenti industriali dovevano essere ricostruiti.

    Più grave di tutte era la perdita di energie umane. Il numero dei morti è stato variamente calcolato, da sette a venti milioni. Se si conta anche la mortalità fra i civili si arriva a venti milioni e oltre. Ogni famiglia aveva subìto perdite. Degli otto uomini capofamiglia che si contavano fra i fratelli e le sorelle di mio marito, tre erano morti, compreso mio marito. Nessuno di essi veniva contato tra i caduti in battaglia, perché tutti erano civili, la cui morte però avvenne in diretta conseguenza della guerra. Le perdite dell'Unione Sovietica furono molto maggiori di quelle di tutti gli altri alleati messi insieme; furono cento volte più grandi di quelle degli Stati Uniti. Cerano villaggi, nel sud, dove neanche un uomo era rimasto per le ragazze da marito. L’occupazione si lasciò indietro molti bambini orfani, e in molti luoghi la gioventù orfana errava sbandata. La ricostruzione cominciò prima della vittoria. Nel capitolo precedente abbiamo visto come le Stazioni di macchine e trattori tornarono al loro posto, e ararono al rombo dei cannoni in ritirata. La grande fabbrica di trattori di Stalingrado era stata distrutta; ma nello spazio di tre mesi dopo che i te- deschi erano stati ricacciati da Stalingrado, uscirono di nuo-  

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vo dal termine delle sue catene di montaggio i carri armati per il fronte. La ricostruzione della diga sul Dnepr e delle industrie intorno ad essa cominciò nel 1944, mentre l’armata combatteva ancora ai confini della Russia.

   Quando arrivò la vittoria, l’economia pianificata dell’Unione Sovietica si volse senza scosse alla produzione di pace. Il nuovo piano quinquennale si pose come obiettivo di completare per il 1949 la ricostruzione delle zone liberate, e per il 1950 di elevarne la produzione industriale del quindici per cento al disopra dell’anteguerra. Questo significò ricominciare tutto daccapo, in molti luoghi, come già una volta era accaduto dopo la rivoluzione. Ma mentre nel 1921 i russi costruivano sulle rovine di un'economia feudale e capitalista, ora essi lavoravano sulle fondamenta dell’economia socialista, che, per quanto attaccata, aveva sopportato la guerra, e disponeva di quella grande base industriale e agricola degli Urali e della Siberia il cui sconcertante sviluppo durante la guerra veniva ora svelato. Dal 1940 al 1943 la produzione di energia elettrica negli Urali era raddoppiata; più che raddoppiata la produzione di ferro. Finalmente, questa seconda ricostruzione aveva la possibilità di servirsi fin dall’inizio di personale esperto, reduce dalla precedente opera di costruzione dell’economia.  

     Senza por tempo in mezzo, Mosca si gettò nella ricostruzione a ritmo serrato. I deputati alla sessione della vittoria del Soviet Supremo ne parlarono nelle piazze. Le feste di novembre celebrarono, come al solito, i records della produzione. La fabbrica di trattori di Stalingrado, ritornata alla produzione di pace, annunciò il tremillesimo trattore della nuova serie come suo contributo alla festa. Sebastopoli, un’altra città quasi cancellata dalla guerra, comunicò che la sua centrale elettrica e il più grande dei suoi cantieri navali erano di nuovo in funzione. Anche Leningrado celebrò la ricostruzione dei suoi maggiori cantieri. Intanto, nella grande ondata politica di fondo che preparava le nuove elezioni, indette per il febbraio 1946, in ogni angolo del paese i deputati vennero a riferire ai loro elettori su quello che avevano fatto durante la guerra, elencan-  

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do ciò che poteva dar loro un titolo a essere riconfermati nella prima elezione generale dell°U.R.S.S. dal 1939.

    L'edificazione del mondo del dopoguerra non fu tanto semplice. «Nulla ha tanto peso nel guidare la politica estera dei russi quanto il desiderio di pace con gli Stati Uniti», dichiarò il generale Dwight D. Eisenhower a una commissione della Camera dei Rappresentanti nel novembre 1945. Le sue parole corrispondevano esattamente alla situazione. Io lo so, perché c’ero. Vidi folle festanti alla celebrazione della vittoria gettare in aria inglesi e americani, in una tipica manifestazione di fraternità, secondo il vecchio uso russo. Tutti i sovietici con cui ho parlato speravano intensamente che, battuto Hitler, gli alleati del tempo di guerra continuassero la loro amicizia per lunghi anni di pace.

    Essi sapevano, naturalmente, - e l’avevano saputo anche durante tutta la guerra - che in America c’ erano forze che sabotavano l’alleanza, e perfino taluni elementi che avrebbero visto più volentieri una vittoria di Hitler. Per due anni, mentre milioni di russi perivano combattendo, i sovietici avevano visto i loro alleati ritardare l’apertura del promesso “secondo fronte” in occidente. Molotov ne aveva discusso con Roosevelt a Washington nel maggio 1942; i titoli del giornali americani proclamarono che il secondo fronte «era promesso» per l”autunno. Churchill, pur rifiutando di fare una promessa formale, aveva dato al ministro sovietico un promemoria in cui si leggeva: «Stiamo preparandoci per uno sbarco nel continente in agosto o settembre di quest’anno››. Un mese dopo l'altro i russi, che sopportavano l’urto diretto della guerra, avevano aspettato. Lo sbarco anglo-americano non venne fino al 6 giugno 1944, quando l’Armata Rossa aveva già liberato la maggior parte del paese, e stava avanzando attraverso la Polonia. Molti russi si chiedevano amaramente. se gli alleati non avessero aspettato tanto per lasciare che la Russia subisse tutte le perdite della guerra, e se fossero sbarcati finalmente in Normandia per non permettere che l’Armata Rossa giungesse da sola a Berlino 

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    Questi sospetti scomparvero nel periodo in cui la strategia alleata venne stabilita di comune accordo, e Roosevelt e Churchill si incontrarono con Stalin a Teheran e poi a Yalta per organizzare la fase finale della guerra e preparare il mondo del dopoguerra. Churchill, nella sua Storia della seconda guerra mondiale, narra del brindisi quasi ingenuo che fece Stalin a Yalta, «alla fermezza dell’alleanza dei nostri tre paesi», dicendo: «Possa questa alleanza essere forte e stabile, e noi stessi franchi quant’è possibile... Tra alleati non devono esserci inganni... Io non conosco in tutta la storia della diplomazia un’alleanza così stretta di tre grandi potenze come la nostra››.

    «Non avrei mai creduto che Stalin potesse essere così espansivo», commenta Churchill, il vecchio indurito imperialista. Ma con quelle parole, Stalin non faceva che esprimere il desiderio più profondo del popolo sovietico. I russi, nell’ora della vittoria, sperarono veramente che il lungo isolamento fosse giunto alla fine, che i terribili sacrifici e le perdite della guerra avessero loro conquistato l’amicizia dell’America e della Gran Bretagna, e con lei, lunghe generazioni di pace.

   Una settimana dopo l’altra, vidi quella speranza spegnersi sui loro volti. Il mutamento cominciò con il lancio della nostra bomba atomica su Hiroscima. Il timore tornò di nuovo in quegli occhi che avevano appena allora visto la pace. Dopo il timore venne la riflessione; perché l’America aveva trucidato 250.000 persone in due città giapponesi, quando il Giappone stava già chiedendo la pace? Voleva Washington monopolizzare la vittoria, escludendo la Russia dalla sistemazione dell’Estremo Oriente? Pochi giorni dopo due altre mosse americane, una in oriente e una in occidente, fecero dire ai russi, disillusi: «Comincia la diplomazia della bomba atomica». In oriente Washington non solo si occupò da sola dell'armistizio col Giappone, escludendo dalle trattative sia la Russia che la Cina, ma stipulò accordi supplementari con i generali giapponesi, in virtù dei quali essi continuavano a combattere contro i comunisti cinesi in attesa che l’America, con una spesa di trecento milioni di dollari, portasse per via aerea le truppe di Chang

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Kai-shek al nord, ad accettare la loro resa. In occidente Washington ordinò alla Bulgaria di aggiungere al suo Governo alcuni uomini di gradimento dell’America, se voleva essere riconosciuta. I russi erano stupefatti: «Noi non chiediamo alla Francia, al Belgio, all’Olanda, di cambiare i loro governi - essi dicevano. - La Bulgaria si trova nella nostra sfera».

   Il colpo successivo si abbatté sulla stessa ricostruzione della Russia. Durante la guerra, i sovietici erano stati indotti a sperare in un grande “prestito di ricostruzione” da parte dell’America, per riparare le distruzioni subite nella guerra comune. Donald Nel- son, che si era recato a Mosca nel 1943, come emissario di Roosevelt, parlò di sei miliardi di dollari come della somma ritenuta giusta. Altri rappresentanti americani lo confermarono negli anni seguenti. I russi ci credettero sul serio; erano affamati, avevano freddo. Poi Roosevelt mori, e Truman sospese perfino l’aiuto dato in base alla Legge affitti e prestiti, così improvvisamente che le merci già imballate per la Russia vennero scaricate dalle navi nel porto di New York. Quando l’U.R.S.S., richiamando un elenco delle proprie perdite, chiese il “primo miliardo” di quel prestito, il Dipartimento di Stato “smarrì” la lettera per circa un anno. Per la mancanza di quel prestito, molti russi morirono di fame nell’anno della vittoria.

    Presto fu chiaro che nessuna delle nazioni rovinate e devastate dell’Europa orientale poteva sperare in prestiti di ricostruzione da Washington, se non a patto di formare il proprio Governo come piaceva agli U.S.A. Entro certi limiti, esse erano disposte anche a questo. La Bulgaria modifico il suo Gabinetto dietro l'ordine di Washington, e rinvio i comizi elettorali quando gli Stati Uniti protestarono contro la forma in cui essi si svolgevano. Tutti i paesi dell’Europa orientale speravano nei prestiti americani, ed erano pronti a venire a patti: offrirono concessioni al capitale straniero, erano disposti a rinviare il socialismo, come  aveva fatto Lenin con la N.E.P.  Mosca non si opponeva: l’U.R.S.S. non era affatto ansiosa di prendere sulle proprie spalle i problemi economici dell'Europa orientale, aggiungendoli ai propri. Se quei paesi avevano la

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possibilità di ottenere prestiti dall’America facendo alcune concessioni al capitalismo, Mosca non aveva alcuna intenzione di mettersi in mezzo.
   Nei primi anni dopo la vittoria, Mosca trattò gli affari dell’Europa orientale con mano leggera. Gli americani credevano che l’arrivo dell’Armata Rossa avrebbe “sovietizzato” immediatamente i paesi dell’est europeo, avrebbe nazionalizzato le industrie, colletti-  vizzando  le fattorie. I corrispondenti americani restavano meravigliati nello scoprire che l’Armata Rossa non aveva nemmeno impedito al re Michele di gettare in prigione i comunisti; lo chiamarono “il mistero della Romania”. Mentre mi trovavo in Polonia nel 1945, era considerato un “tradimento” esercitare pressione per la collettivizzazione dell’agricoltura, per timore che questo rendesse nemici i contadini. Mosca intendeva avere “nazioni amiche” lungo i suoi confini, ma tutto il comportamento dell’U.R.S.S. nel 1945-1946 -la lunga tolleranza del regime totalmente reazionario dire Michele in Romania, il mancato aiuto dei russi ai comunisti che combattevano in Grecia, la sospensione delle elezioni in Bulgaria a seguito di una protesta americana, l’accoglimento di tre polacchi di Londra a far parte del Governo di Varsavia - stava a indicare che Stalin era pronto a fare molte concessioni nell’Europa orientale per mantenere la sua amicizia del tempo di guerra con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.      Questo era il logico sviluppo della dottrina del «socialismo in un solo paese». L’U.R.S.S., per venti anni disperatamente occupata nella costruzione, aveva dimostrato sempre meno interessamento per le rivoluzioni all’estero. L’“oscura Russia” dei primi tempi, che si rivolgeva per aiuto alla classe operaia tedesca, era diventata una grande potenza, che considerava il suo esempio di primo paese del socialismo come un ruolo già sufficiente. Il suo scopo principale di politica estera non era stato la promozione di rivoluzioni, ma il trattenere il mondo capitalista dall’allearsi contro l’U.R.S.S. in una guerra. Quando questo fu evitato, quando si trovò al fianco Chur- chill e Roosevelt, Stalin favorì lo scioglimento dell’Internazionale comunista. Nella conferenza di Teheran, l’originaria

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dottrina del socialismo in un solo paese si era sviluppata nella tesi della «coesistenza pacifica con gli Stati capitalisti». A Yalta, Stalin era andato oltre concependo il sogno che i tre grandi alleati avrebbero continuato la loro “franca amicizia” per stabilizzare insieme la pace nel mondo.

     Era uno strano sogno, da parte di uno sperimentato bol- scevico, quest’idea che la pace del mondo potesse essere edificata sulla base di una comunanza d’azione del primo Stato socialista con le due più grandi potenze imperialiste. Ma le Nazioni Unite nacquero da questo sogno. E anche la politica di Mosca nell’Europa orientale ebbe questa premessa, nei primi anni dopo la guerra.

   Le concessioni di Mosca non erano abbastanza per l’America. Roosevelt forse le avrebbe sapute comprendere, perché era un uomo di Stato di statura mondiale e conosceva la storia. Ma con l’ascesa di Harry S. Truman alla presidenza degli Stati Uniti, tutto quel che c'era di avido e meschino nel’imperialismo americano trovò il suo strumento in questo politicante di provincia, con il monopolio della bomba atomica in mano e nessun senso storico. Truman non prese in considerazione - e probabilmente non lo sapeva neppure - il fatto che la Romania, la Serbia e la Bulgaria erano state nella sfera d’influenza russa per un secolo; esse dovevano la loro stessa esistenza come Stati alla guerra che i russi combatterono contro i turchi cento anni fa. Nel periodo fra le due guerre mondiali i governanti di quei paesi, essendo dei monarchi dispotici, furono naturalmente antisovietici: ma il popolo contadino non abbandonò mai il suo vecchio amore per la Russia. Cosi, quando l’Armata Rossa scacciò gli eserciti nazisti, gli ufficiali filotedeschi fuggirono e sorsero dei nuovi regimi che presero subito le armi dalla parte dei russi. Ma Washington - nella persona di Harry Truman - vide in tutto questo soltanto un’opera di sovversione. Washington, che non aveva mai accettato fino in fondo la natura “antifascista” della guerra, combatté ovunque il fronte antifascista che si sviluppava in tutti i paesi liberati. Nell’Europa occidentale la pressione americana riuscì a dividere que- sto fronte e ad escludere i comunisti dalla partecipazione ai

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governi, cui i voti ottenuti avrebbero dato loro diritto. Questo intento americano non riuscì però nell’est. In tutte queste nazioni, gli eventi si svilupparono secondo un modello comune, basato sull’esperienza che ogni paese aveva fatto durante la guerra. Tutti avevano grandi proprietari terrieri che avevano collaborato coi nazisti e che erano fuggiti con l’esercito tedesco: questo facilitò la tanto ritardata ripartizione della terra fra i contadini. In tutti quei paesi i tedeschi avevano esercitato un dominio assoluto sulle maggiori industrie: la loro fuga lasciò le industrie senza padrone, oltre che completamente in rovina. La nazionalizzazione dell’industria pesante divenne non solo facile ma necessaria, a meno che gli americani non avessero accettato concessioni, cosa che non vollero. In tutti questi paesi la guerra aveva spazzato via e discreditato i vecchi dirigenti politici, lasciando solo una discriminante: quelli che avevano collaborato con i nazisti e quelli che avevano resistito. Di conseguenza, i primi Governi si formarono dalla coalizione di diversi piccoli gruppi che comprendevano tutti coloro che avevano combattuto i tedeschi. Le ambasciate americane, tuttavia, proteggevano i vecchi dirigenti ormai estranei al paese, chiedendone l’inclusione nel Governo. Talvolta i paesi dell’Europa orientale cedettero, sperando nei favori dell’America. Ma per il modo di giudicare di Washin- gton, non cedevano mai abbastanza. I prestiti americani, in cui speravano tutti i paesi dell’Europa orientale, non si tradussero in realtà. L’Europa orientale dovette appoggiarsi per un aiuto economico alla Russia esaurita dalla guerra. Questo portò a scompensi e difficoltà per le merci e per i prezzi, perché di nulla vi era a sufficienza. A sua volta, ciò determinò un’azione più ferma da parte di Mosca, che distribuì con parsimonia i beni. Coll’inasprirsi della politica della guerra fredda condotta da Washington, mutava anche la politica di Mosca nell'Europa orientale. Indice del cambiamento fu l'improvvisa, brutale espulsione della Iugoslavia dall’alleanza comunista, per aver richiesto quel tipo di “indipendenza nazionale” che era stato vangelo per tutta

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L’Europa orientale solo due anni prima. Un antagonismo personale di Stalin contro Tito e la rumorosa insistenza jugoslava nel richiedere un’industrializzazione maggiore di quella che Mosca si trovava in condizioni di realizzare ebbero la loro importanza. Ma la ragione profonda del mutamento non era da cercare in Jugoslavia, ma anche in Harry S. Truman. Dopo aver provocato per anni l’irrigidimento di ogni politica russa, egli aveva annunciato la “dottrina Truman”, e aveva detto che avrebbe mandato truppe in Grecia e in Turchia per “arginare il comunismo”. Il risultato di queste bordate ai fianchi dell’Europa orientale da parte di un’America sempre più ostile era naturale e non si fece attendere: Mosca rafforzò il controllo sull’Europa orientale, cercò di saldarlo in forte blocco militare, e condannò la Jugoslavia quando essa vi si oppose.

    Non è questo il luogo di passare in rassegna la lunga storia della politica di “irrigidimento” con cui Washington mandò in frantumi il sogno di Stalin - che era stato anche il sogno di Roosevelt - di un’amicizia duratura fra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Truman insultò Molotov già durante il suo viaggio al primo Congresso delle Nazioni Unite a San Francisco: l’America volle che l’U.R.S.S. fosse bollata nella prima assemblea delle  Nazioni Unite come “aggressore” perché le truppe sovietiche tardavano   a ritirarsi dall’Iran, mentre truppe americane, inglesi e francesi restavano indisturbate e senza censura in diverse parti del mondo. Il “blocco di Berlino”, iniziato dai russi come misura temporanea per proteggere l’economia della Germania orientale da un fiume di nuova carta-moneta stampata nella zona americana, fu trasformato dagli Stati Uniti in una lunga dimostrazione dell’abbondanza americana di aeroplani e rifornimenti. Il “piano Baruch” per il controllo dell’atomo, annunciato da Washington come un gesto “di pace”, apparve agli occhi di ogni russo come un tentativo di metter le mani sulle risorse naturali sovietiche attraverso un’istituzione delle Nazioni Unite, che erano controllate da Washington. Al danno sembrò aggiungersi la beffa quando la stampa americana cominciò a contestare sempre più aspramente al-

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-l’U.R.S.S. «i grandi territori di cui si era impadronita con la guerra». I russi li consideravano come territorio loro, perso nella prima guerra mondiale, e solo parzialmente recuperato nella seconda. La Russia aveva perso o ceduto 858.000 chilo- metri quadrati di territorio nella prima guerra, 650.000 ne aveva riguadagnato nella seconda; la perdita netta di 208.000 chilometri quadrati corrisponde all`ingrosso ai territori dell'antico impero russo divenuti finlandesi e polacchi. I russi non avevano fatto rimostranze quando la guerra mondiale aveva trasformato sia l’Atlantico che il Pacifico in “laghi americani”, ma furono esacerbati quando quegli stessi americani, che si erano impadroniti di tutti gli oceani e costruivano basi sulle loro isole e coste, si misero a far chiasso sulla “cupidigia” della Russia nel riprendere quello che era stato suo.

     All’interno dell’U.R.S.S. la dottrina di Truman del containment e la continua istigazione contro la Russia da parte di quell’America nella cui amicizia la Russia aveva sperato, alimentarono un patriottismo irritato ed eccessivo, che denunciava come “cosmopolitismo” - e quasi come un tradimento - ogni credenza che un qualsiasi paese che non fosse la Russia avesse mai inventato qualcosa di buono. Questo nazionalismo malato si sviluppò come difesa psicologica contro l’amara constatazione che i russi avevano pagato più di tutti i loro alleati messi insieme per la vittoria comune e che la vittoria aveva portato loro, non un ruolo di uguali nella costruzione della pace mondiale, ma un nuovo accerchiamento ostile di basi degli Stati Uniti, i quali disponevano ancora del monopolio dell’arma atomica, ed erano pronti a tacciare di “aggressione” ogni espansione che non fosse la propria.  In quello stesso periodo ci fu anche uno sviluppo dell’antisemitismo, che io ancora non riesco ad analizzare completamente. Non fu mai una cosa ufficiale; la legge che faceva dell’antisemitismo un reato non venne mai revocata. Tuttavia si verificarono molte azioni, non solo da parte di individui, ma anche di istituzioni governative, contro gli ebrei e la cultura ebraica. Questi atti erano sempre illegali, e perciò tanto più

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difficili da individuare. Era difficile sapere se le ragioni addotte fossero vere o no. Quando la stampa e il teatro in lingua ebraica vennero soppressi nel 1948 la ragione che se ne diede fu che «la richiesta era insufficiente». Dato che la popolazione ebraica era stata evacuata dalla zona occupata dalla Germania e sparpagliata in tutta la Siberia, e che non tutta era ritornata indietro, questa “ragione”, poteva anche essere vera in parte. Ma l’esagerato nazionalismo russo di quel tempo ebbe indubbiamente la sua influenza. Nel 1949, il Moscow News, il giornale di lingua inglese, venne soppresso e il suo personale arrestato.

   Le cause dell’antisemitismo erano molte. Quando il Governo evacuava la popolazione dalle zone invase da Hitler, la preferenza veniva data deliberatamente agli ebrei. La ragione era evidente: gli ebrei sarebbero stati sicuramente uccisi dai tedeschi, mentre i russi avevano una maggiore possibilità di sopravvivere. Questa politica salvò dalla morte circa due milioni di ebrei, ma non li rese cari ai russi che erano rimasti indietro. Essa aumentò la percentuale degli ebrei tra i profughi in tutte le zone orientali; i profughi sono sempre un peso per la popolazione locale, e non sono mai accolti con gioia. Per di più l’annessione del territorio che precedentemente aveva formato la Polonia orientale veniva ad aggiungere una popolazione fra cui l’antisemitismo era forte. I circoli governativi subivano probabilmente l’influenza del risorgere di Israele e delle immense  manifestazioni di ebrei che salutarono l’arrivo dell’ambasciatore israeliano. Esse sembravano indicare, almeno superficialmente, una doppia cittadinanza.

    Quanta discriminazione vi fosse contro gli ebrei nel campo educativo è difficile a dirsi. La discriminazione nelle scuole non fu mai generale, ma indubbiamente esisteva; era sotterranea e si sviluppavano sempre delle lotte contro di essa. La mia migliore amica per un certo tempo si sentì insicura nel suo lavoro all’università perché si era rifiutata di cedere all’antisemitismo che sembrava fosse sostenuto dal segretario del Partito all’università. Un giorno venne a casa esultante: «Ora so che il partito non è per l’antisemitismo - ella disse. –

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Hanno mandato via A... Si occupava qui dell’università per incarico del Comitato centrale, e molto di tutto questo antisemitismo faceva capo a lui», Questo aneddoto mostra la confusione che esisteva. L’antisemitismo talvolta era sostenuto da persone che occupavano alte cariche, ma sempre in maniera obliqua. La legge fondamentale che lo rendeva illegale non venne mai attaccata, discussa o revocata.

    La malattia dell’anticosmopolitismo passò, e con essa l’antisemitismo. Non grazie a leggi e decreti, ma a causa di tre fatti. Nel 1950 l’U.R.S.S. toccò il livello di produzione più alto nella sua storia, con una relativa abbondanza di beni. Poi, sempre nel 1950, l’U.R.S.S. realizzò anche la bomba A: la minaccia del monopolio atomico americano era passata. Finalmente, la Repubblica popolare cinese venne costituita a Pechino, e immediatamente stipulò un’alleanza con l°U.R.S.S. Il patriottismo malato ed eccessivo alimentato dalla guerra fredda non poteva sopravvivere all’alleanza con un grande paese orientale, sullo stesso piano dell°U.R.S.S., le cui invenzioni datavano da un migliaio d’anni prima di quelle russe, e la cui intelligenza e realizzazioni attuali non potevano non essere apprezzate anche dai più intraprendenti e fortunati fra i russi.

    La dottrina che ogni paese avrebbe trovato la propria via al socialismo, annunciata brevemente nei primi anni del dopoguerra per l’Europa orientale, e che poi era stata sotterrata sotto il nazionalismo della guerra fredda, si fece strada di nuovo, e questa volta per affermarsi definitivamente. L’incubo durato trenta anni dell’ “accerchiamento capitalista”, cui Stalin aveva sperato di fuggire con un”alleanza con Roosevelt e Churchill, finiva ora per l’alleanza con Pechino. Le basi aeree americane minacciavano ancora il paese sovietico, ma da un cerchio lontano; esse non potevano più “contenere la Russia”. Intanto, il rafforzamento dell’economia sovietica e gli sviluppi delle bombe A e H preannunciavano già quell’equilibrio militare tra oriente e occidente in cui il commercio e l’aiuto economico diventavano le armi decisive.

   Un altro evento, nel 1950, affrettò questo sviluppo. Washington trascinò le Nazioni Unite in una guerra in Corea che fu considerata in tutta l’Asia come un tentativo di intervento contro la nuova Cina.

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   Da quella guerra, il ruolo dirigente dell’America nel mondo cominciò a declinare, prima in Asia e poi in Europa. Il popolo sovietico finalmente intravedeva non solo la prosperità, ma la pace. Forse anche una pace duratura, basata non su un'alleanza con Washington e Londra, ma sulla grande sete di pace e di prosperità fra i popoli delle vecchie colonie divenuti da poco indipendenti.

   Così il circolo si chiuse. La nazione che, nel 1927, aveva rinunciato a promuovere la rivoluzione mondiale e si era isolata per costruire il socialismo in un solo paese circondato dai nemici cominciò di nuovo una crociata mondiale. Non per una rivoluzione monndiale, questa volta, ma per la pace mondiale. Questa pace non sarebbe stata ottenuta “da posizioni di forza”, come ripetono eternamente i vari Foster Dulles dell’imperialismo, ma mediante fattiva pressione dei popoli del mondo, attraverso i Governi o anche al di là dei Governi. L’U.R.S.S. diventò il paese delle “offensive  pace”. «Le offensive di pace del Cremlino creano gravi problemi all’occidente››, scriveva il New York Times del 28 dicembre 1952. Tre volte nel corso di quell’anno, Stalin aveva messo in agitazione la Borsa insistendo sulla «possibilità della coesistenza». L’Unione Sovietica divenne anche l’ispiratrice di petizioni mondiali per la pace che chiedevano la messa fuori legge della bomba atomica; mentre l’U.R.S.S., come Stato, lavorava in questa direzione con i mezzi della diplomazia, i cittadini dell°U.R.S .S., mescolandosi di nuovo a tutte le altre nazioni, lavoravano allo stesso scopo mediante gli appelli di Stoccolma per la pace, l’appello per il patto di pace delle cinque potenze, e come partigiani della pace. In calce a questi appelli si ottennero le firme di quasi la metà della popolazione adulta del globo.

    Negli ultimi anni di Stalin questa politica trovò un sostegno non solo nella diplomazia e nella propaganda, ma nella crescente potenza economica dell’U.R.S.S. Nell’aprile del 1952, a dispetto del blocco del commercio estero col blocco sovietico, imposto dall’America, si tenne a Mosca una conferenza economica mondiale, per il traffico con tutti i paesi del mondo senza pregiudizi ideologici. L’unico dei circa 400 delegati che violò la regola unanimamente adottata di evitare ogni discussione ideologica, fu uno venuto da San Francisco che ci tenne assolutamente a ripe-

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tere: «La libera iniziativa è la cosa migliore». I russi, si racconta, si limitarono a sorridere: tanto più potevano permettersi di lasciar perdere in quanto, come Howard K. Smith scrisse quell’anno da Mosca, «il livello di vita dei moscoviti è migliorato in modo tale da rendere inadeguato qualsiasi riconoscimento».

    I delegati sovietici alla conferenza economica miravano al sodo, evitando ogni asperità, e trattando tutto con la metodica gentilezza dell'uomo d’affari. La Associated Press riferì che «Mr. Nesterov, presidente della Camera di Commercio della Russia, mettendo in luce i punti deboli dell’economia degli altri paesi, offriva come soluzione di commerciare con l”U.R.S.S.››. Il Wall Street Journal del 15 aprile osservava: «(i russi) hanno offerto di comprare merci inglesi e giapponesi che non trovano richiesta sul mercato; di fornire grani duri, legname e materie prime di cui l’Asia occidentale e l”Europa hanno urgente bisogno. Hanno offerto acciaio temprato all'India. Si sono dichiarati disposti a pagare in valuta estera... Hanno proposto scambi sulla base del baratto... Tutto questo appare molto attraente». Il New York Times del 20 aprile scrisse: <<(La conferenza) ha toccato l’occidente nel suo punto più vulnerabile, perché la disoccupazione in Europa è aumentata... a causa dell’insufficienza dei mercati».

    L’U.R.S.S., in altre parole, offriva di aiutare il mondo capitalistico a reggersi sulle sue basi un poco più a lungo. Perché? Mitigare le tensioni, impedire che la barca del mondo vada a frantumarsi sugli scogli, questo era il suo scopo: intanto, i popoli del mondo avrebbero avuto la possibilità di fare la loro scelta tra i diversi sistemi economici. I russi, a lunga distanza, possono permettersi di aspettare.

    L’ultimo atto pubblico di Stalin fu il rapporto di cinquanta pagine che egli scrisse per il XIX Congresso del Partito, nell’ottobre del 1952. Dall’ultimo Congresso, tenuto nel ‘39, c'era stata una pausa di tredici anni, durante i quali l’U.R.S.S. era stata sull’orlo estremo della distruzione, ed era stata ricostruita un’altra volta. «Il Congresso si riunì in un’atmosfera di grande confidenza nella capacità del blocco sovietico di far fronte e superare tutte le prove che il futuro può riservare››, scrisse Harrison Salisbury sul New York Times. Giorgi Malenkov sostituì Stalin come

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oratore principale del Congresso: i sovietici interpretarono questo come il segno del fatto che Stalin stata preparando in lui il suo successore: che egli si preparava a passare ad altri il suo compito.         Stalin pubblicò direttamente un altro scritto, un rapporto su I problemi economici del socialismo nell'U.R.S.S., che presentava un complesso di tesi sulla situazione mondiale e sulle vie che prevedibilmente avrebbe preso il suo sviluppo. Egli diceva che il risultato economico della seconda guerra mondiale era stato «la rottura del mercato unico mondiale» e la sua sostituzione «con due mercati mondiali paralleli ed opposti tra loro››. Il gruppo dei paesi socialisti, sotto la pressione del blocco commerciale imposto dall’occidente, aveva rafforzato la sua economia, superato le proprie manchevolezze con la collaborazione, e ora aveva «un suo proprio mercato mondiale». ll mercato mondiale capitalistico, ristretto già dalla sua chiusura verso i traffici con l’altro mercato, si sarebbe ancora ristretto, e questo avrebbe accresciuto gli antagonismi all’interno del mondo capitalistico. L’U.R.S.S., disse Stalin, «non attaccherà i capitalisti, ed essi lo sanno». Questo, egli l’aveva già detto altre volte; ma per la prima volta appariva la previsione che i paesi capitalistici «avranno paura di attaccare l’U.R.S.S., per timore che ciò porti alla distruzione del capitalismo». Perciò, concludeva Stalin, era più probabile che vi sarebbero state guerre dei paesi capitalistici tra loro che non tra il mondo capitalistico e il mondo sovietico.
   Questa previsione, fatta mentre l’estremismo maccartista della guerra fredda infuriava ancora a Washington, sembrò fantastica a molti. Ma Stalin scorgeva i sintomi di quel punto morto nell’equilibrio militare che condusse più tardi alla Conferenza di Ginevra dei capi di Governo; e già il sorgere del blocco neutrale in Asia, e dell’influenza che la Cina vi avrebbe avuto, era per lui il presagio della Conferenza di Bandung, che ancora doveva venire.
     L’ultimo testamento di Lenin era stato l’analisi lasciata ai compagni delle tendenze dei vari leaders del Partito. L’ultimo testamento di Stalin fu un analisi delle tendenze di sviluppo delle nazioni della Terra.
     Di tanto era lungo il cammino percorso dal suo paese nei trent’anni in cui egli ne fu alla testa.